Recensione: California Breed
Non ce n’è.
Riascoltare la voce ricca di sfumature, colori e personalità di un maestro irraggiungibile come Glenn Hughes è, da sempre per il sottoscritto, uno dei veri motivi per cui valga la pena di appassionarsi al rock.
Nell’arco di un ellepì, il range di emozioni toccate e di tonalità di luce riflesse è innumerevole: un dono naturale nel modellare le corde vocali sulle linee portanti dei singoli brani. Una dote innata nell’arricchire le melodie con tonnellate di carattere ed intensa forza espressiva.
In una sola, unica e perpetua definizione: “The Voice Of Rock”!
Ultimamente un po’ più misurato nelle uscite rispetto a qualche anno fa, quando non passavano sei mesi di fila senza vederne il nome coinvolto in qualche collaborazione, mr. Hughes si sta lanciando sempre più spesso in progetti paralleli dai nomi fantasiosi e particolari, al solito però marchiati a fuoco dalle scintille del talento e della superiorità artistica.
Persi per strada Derek Sherinian e Joe Bonamassa e sciolto – per motivi piuttosto ignoti – il sodalizio durato tre ottimi album a nome Black Country Communion, ora è tempo di “razza californiana”. California Breed è, infatti, la nuova realtà musicale del singer britannico che, sempre in compagnia del fidato Jason Bonham alla batteria, recluta il giovanissimo virgulto Andrew Watt alla chitarra per proporsi – in una inedita unione di freschezza giovanile, esperienza e pura abilità strumentale – in sella alla nuova, ennesima, avventura discografica.
Inevitabili, data la presenza di due dei quattro membri della line up apprezzata nei Black Country Communion, i paralleli tra quelle che sono state le peculiarità di questi ultimi ed i nuovi California Breed.
Il tocco di Watt è innanzitutto, meno blues e “sentimentale” di quello di Bonamassa. Più hard, selvaggio, fisico e “grungy”, il giovane axeman si dimostra devoto ad alcuni padrini fondamentali del vetero-rock d’altri tempi, come Jimmy Page e Jimi Hendrix, ma al loro stile di “tocco”, unisce una crudezza tutta modernista nello sventagliare gli accordi, avvicinandosi nel carattere dei suoni alle realtà contemporanee come Mark Tremonti e Zach Myers.
Il fatto poi che manchi completamente qualsiasi inserto di tastiera, la dice lunga sul percorso tracciato per i California Breed.
Una piccola rivoluzione che supponiamo voluta da due “vecchi marpioni” come Hughes e Bonham i quali, pur se stimolati dalla grinta del loro giovane e vigoroso compare, imbrigliano comunque il songwriting della nuova creatura entro i consolidati canoni dell’hard rock, sanguigno, “vissuto” e sporcato delle consuete divagazioni funky care allo stesso Hughes.
Più ruvido ed “urlato” di quanto non fossero i BCC, il taglio stilistico di questa nuova formazione assume connotati funky-rock più netti, chiari ed evidenti. I tratti blues – pur se contigui alla natura stessa del progetto – vengono dispersi all’interno di un modo di comporre dal respiro decisamente più “settantiano”, un po’ fricchettone nello spirito e – come suggerito dall’astrattismo della copertina – pure con qualche vaghissima oncia di psichedelia.
Alla radice, non facciamo insomma fatica ad identificare, in modo più o meno esplicito, il modus operandi proprio di Glenn Hughes, ora in completo comando di quello che potrebbe quasi essere qualificato come un suo disco solista, spacciato però con il nome di una band.
L’esordio dell’album è, come da convenzioni, un assaggio preciso della linea adottata dall’intero cd. “The Way”, è un pezzo abrasivo, scalciante, che colpisce duro, con uno Hughes assatanato ad urlare strofe su di una struttura melodica che per veemenza spazza via qualsiasi clone dei Black Stone Cherry in circolazione (il riff portante, dopo tutto, assomiglia proprio tanto a quello di “Me And Mary Jane” proprio dei Cherry…).
Il preludio ad una tracklist destinata a non lesinare energie e forza d’urto, ricollegando in un’unica soluzione molte delle ispirazioni storiche della Voice of Rock, già ascoltate – ad esempio – nel capitolo solista intitolato “F.U.N.K.”.
“Sweet Tea” e “Chemical Rain” assommano ritmo all’hard rock di ultima generazione, insieme a qualche “trovata” chitarristica di primo livello e ad un alone funkeggiante che, come detto, in certune divagazioni sembra quasi assumere la via della psichedelia (ascoltare il bridge centrale di “Chemical Rain” per credere).
Non sappiamo poi, se il titolo sia in qualche modo da considerarsi una qualche forma di omaggio alla leggendaria formazione australiana, “Midnight Oil” è, in ogni modo, un altro passaggio che, al pari di quanto ascoltato sinora, mette in fila modernismi contemporanei, Jimi Hendrix ed il funky-blues, con la voce di Hughes, qui filtrata, a guidare come meglio non potrebbe un pezzo fatto di colori accecanti.
La grandezza vocale del “funkmeister” (uno dei tantissimi nomignoli maturati da Glenn nel corso dell’infinita carriera), è invece protagonista dell’intensa e bluesy “All Fall Down”, un momento di respiro prima della tirata di “The Grey“ e dei toni oscuri di “Days They Come”, pezzo quest’ultimo più meditato ed in cui apprezzare una delle soluzioni melodiche corali più vincenti dell’intero disco.
Con toni quasi grunge ed alternative, i California Breed sorprendono poi con la solare “Spit It Out”, brano che si lancia, per la prima volta dall’inizio dell’album, in un ritornello aperto e divertito. È solo un sussulto: già con “Strong” il clangore della chitarra di Watt riprende a macinare riff settantiani, spedendo in archivio un pezzo non proprio memorabile e transitorio, a dispetto delle svisate psichedeliche che ne caratterizzano la parte mediana.
L’ombra di Tony Iommi si materializza quindi in “Invisibile”, una canzone che per qualche strana ragione non avremmo visto male su “Fused”, disco realizzato qualche anno fa proprio dalla coppia Iommi-Hughes, per lasciare infine spazio alle conclusive “Scars”, funky-rock saltellante e vitaminico e “Breathe”, episodio che con un approccio polveroso e Zeppeliniano porta a termine il lavoro, lasciando in eredità l’ennesima prestazione sopra le righe dell’immenso Glenn Hughes, o “The Voice Of Rock”, se preferite…
California Breed è, come facilmente desumibile dal resoconto, un buon album, messo in pista da due vecchie volpi della scena, splendidamente assecondate da uno sconosciuto quanto abile giovane chitarrista.
Diciamo la verità tuttavia: privato dello straordinario ed incommensurabile talento vocale di un eterno e grandissimo frontman come Glenn Hughes, questo primo capitolo non sarebbe forse destinato a raccogliere più successo di un discreto prodotto di hard rock posto a cavallo tra suoni contemporanei ed atmosfere vintage di stampo seventies, accalappiando un uditorio in sintonia con i trend imperanti degli ultimi anni. Non molto di più.
La qualità delle composizioni, in effetti, è tutt’altro che malvagia, tuttavia non si ravvisano grossi colpi di genio o elementi tali da vaneggiare di capolavori imprescindibili.
La presenza della Voice of Rock è però quel classico valore aggiunto, quell’alito di superiorità e quell’esalazione di “divino” che rende una release “normale” – per quanto gradevole – un disco da ascoltare almeno una volta.
Chi dunque, si era appassionato ai Black Country Communion e si butterà nell’ascolto dei California Breed, speranzoso d’assaporane i medesimi aromi, sia avvertito: le coordinate sono differenti ed il “feeling” non va nella stessa direzione.
Ma resta sempre la grandezza di uno dei singer più grandi che la storia del rock abbia mai conosciuto: godersi le tonalità cangianti della voce di Glenn Hughes è, sempre ed in ogni evenienza, un qualcosa per cui valga comunque la pena di perdere un po’ del proprio prezioso tempo…
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