Recensione: Calvaire

Di Manuele Marconi - 10 Febbraio 2021 - 0:38
Calvaire

In Francia nascono nel 2010 i Ferriterium, gruppo formato inizialmente da due membri, che però dopo il primo album hanno deciso di separare le proprie strade. Il nome del gruppo però è rimasto vivo, ed il suo vessillo è stato portato dal tuttora unico membro Raido, che ha pubblicato complessivamente tre album fra il 2016 ed il 2021 (con e senza l’ex socio Bael). Calvaire è l’ultimo prodotto uscito dalla mente creativa della nostra one-man band, e si sviluppa su una durata di poco più di 40 minuti, divisi in quattro brani corposi, di circa 10 minuti l’uno.

Il disco si apre con L’Apostasie: ottima apertura, bella potente e trascinante, con un riff portante pesante e profondo. Il brano parte bene, ma soffre decisamente di scarsa ispirazione compositiva: i vari rallentamenti che si incontrano sembrano momenti di pausa di chi suona, piuttosto che idee dettate dalla creatività. Inoltre la sensazione è che il brano sia decisamente troppo diluito: una durata di 5 minuti invece di 11 avrebbe sicuramente giovato, perché a meno che non si tratti di uno stile ambient, un pezzo di 11 minuti deve avere per lo meno una buona dinamica, cosa che qui manca.

Anche in La Proie Du Cloître si assiste ad una partenza buona, che ha però un seguito: qui le varie soluzioni stilistiche sono sensate ed introdotte correttamente. La varietà è giusta, il pezzo è di qualità complessivamente soddisfacente, non è “monco” come quello di prima, seppur non sia nulla di eclatante. Verso la fine si ripresenta un certo arrancare del brano, quasi a volersi spingere per forza verso una durata a doppia cifra, anche se in misura sicuramente più sopportabile rispetto a quanto proposto in precedenza.

L’Opéra De Géhenne è sicuramente il pezzo più indovinato del lotto, piacevole e ben eseguito. Il brano è prevedibile ma nel senso positivo del concetto: l’ascoltatore si “aspetta” che accada qualcosa durante l’ascolto perché pensa che ci andrebbe a pennello, non perché questo risulti scontato, quindi nel momento in cui la “previsione” viene soddisfatta appare gradevole, non banale. Il pezzo si evolve piacevolmente e regala un ottimo feeling di progressione nell’ascolto, totalmente l’opposto della opener. L’Apogée Du Martyr conferma l’andazzo del disco, da sottolineare una sezione molto malinconica ed introspettiva che la traccia ci regala.

Nonostante la buona qualità di produzione i difetti dell’album sono difficili da ignorare: in generale infatti se ascoltato in unica soluzione risulta pesante, a dispetto di una durata assolutamente nella media. Questo perché di buona fattura, ma non eccelsa: se si sceglie una divisione di questo tipo bisogna in qualche modo supportarla. A parità di durata meglio più brani ma ispirati piuttosto che proporne in numero limitato ma forzatamente estesi. Questo perché ciò che c’è di buono viene così diluito, e le parti negative acquisiscono più peso di quello che dovrebbero avere, o meglio, avrebbero avuto altrimenti.