Recensione: Can’t Go Home
Nel 1992 l’album di esordio degli Unruly Child, quintetto costituito da musicisti di grande fama e talento agglutinati col cantante Mark Free (proveniente, all’epoca, da King Kobra e Signal), rappresentò una delle più entusiasmanti espressioni “tardive” dell’hard rock melodico/AOR, palesatisi in un periodo in cui ben altri suoni imperversavano nelle classifiche e nei gusti dei critici.
Il monicker Unruly Child, negli anni successivi, continuò a spuntare con line-up diverse, nelle quali il ruolo del cantante fu assunto da gente di talento come Kelly Hansen e Philip Bardowell, mentre Mark Free si rendeva protagonista di un altro grande album AOR di culto come Long Way From Home (1993).
Bisognerà aspettare il 2010 ed il ben accolto World Collide per vedere Mark (intanto diventato Marcie) Free riunirsi con i propri compari.
Il 2017 ci regala, finalmente, un nuovo capitolo nella storia degli Unruly Child “originali”. Riecco, infatti, al lavoro la cantante transgender Marcie Michelle Free insieme all’inossidabile duo di chitarre & tastiere costituito da Bruce Gowdy (Stone Fury, World Trade) e Guy Allison (Lodgic, World Trade, Doobie Brothers). Tutti trainati dalla instancabile sezione ritmica formata dal batterista Jay Schellen (Hurricane, World Trade, Asia) e dal bassista Larry Antonino (Pablo Cruise, Ambrosia, Air Supply).
La reazione chimica scaturita dall’interazione tra questi cinque elementi ha prodotto un album che s’intitola “Can’t Go Home”, il quale presenta un florilegio di undici nuove tracce in perfetto stile melodic rock.
Le canzoni del nuovo disco sono quasi tutte di pregio: tra le più luminose, troviamo Sunlit Sky, un mosso e articolato melodic rock che mette in mostra brillantemente le doti della voce e degli strumenti, e Someday Somehow, posto in chiusura, che è il pezzo più veloce e rock, e che si snoda trascinante e solare trasudando classe ed energia espressa dalla sezione ritmica.
Anche The Only One denota raffinatezza ed eleganza, particolarmente conferite dalla delicatezza del suono dei tasti d’avorio. Lo sviluppo melodico tende verso un pop controbilanciato da chitarre più aggressive del resto degli strumenti. Driving Into The Future, ancora, è un altro vivace e magistrale pezzo AOR con maggiore grinta della media del disco grazie anche chitarre e tastiere molto “eighties”.
Tra i brani più entusiasmanti ci piace citare pure Get On Top, una canzone che alterna momenti più lenti ad accelerazioni repentine nel ritornello, e, ancora, Four Eleven, brano cadenzato, teso e fiero, dalla voce stilosa assai, contrassegnato da ottime chitarre e da un mood alla Whitesnake che non dispiace affatto.
Echi del “serpente bianco” si annidano anche in She Can’t Go Home, ballata gradevole e tutt’altro che banale.
Altrove ecco far capolino il soft-rock brillante di Point Of View, molto gradevole, e di When Love Is Here, vagamente ripetitivo.
Can’t Go Home, insomma, mette in mostra i pregi del canto sempre duttile ed a suo agio in ogni contesto ed atmosfera di Marcie Free, la classe sopraffina della scrittura e dell’esecuzione, sempre raffinata e eccellente, con tastiere e chitarre in bel rilievo. Un tuffo, dunque, in suoni ottantiani (anche se gli Unruly Child sono nati come gruppo nel decennio successivo) da parte di una band abile a non cadere in troppi manierismi. Il platter, però, ci lascia anche il rimpianto di una produzione e di suoni non adeguati alle esigenze di un genere musicale, l’AOR, che necessità di un sound di un certo livello per consentire alle canzoni di scintillare come si deve.
Per chiudere, prendiamo nota con piacere dell’annuncio, da parte di Frontiers, dell’imminenza di un box set di ristampe degli album indipendenti degli Unruly Child, atteso per la prossima primavera.
Francesco Maraglino