Recensione: Canto VII
Settimo full-length in carriera per i milanesi Node, realizzato sulla base del settimo (un caso?) canto della Divina Commedia, il cui incipit suona in modo sinistro con la celebre frase proferita da Pluto «Pape Satàn, pape Satàn aleppe».
E così, con l’intro “Pape Sátan“, narrato da una gelida voce, si dà inizio alle danze al disco in modo cupo e oscuro. Del resto, all’Inferno non ci sta bene nessuno, e tantomeno gli avari e gli iracondi, che popolano, appunto, il VII canto.
Detto questo, la musica. Che, come da tradizione, è un connubio praticamente perfetto fra il thrash e il death metal. A parere di chi scrive, però, appare più corretto riferirsi al secondo macro-genere, se non altro per una questione di feeling, di cuore, di atteggiamento. E di growling, nondimeno, elemento estraneo all’altra foggia artistica appena menzionata.
La realizzazione di un disco che tenga conto di questa specifica connotazione stilistica non è per niente semplice. Assolutamente, poiché basta poco per far confusione e infilarsi in un ginepraio di brani che non riescono a esprimere la propria personalità in virtù, proprio, della volontà di non appartenere al 100% nelle braccia di una specifica specie musicale. Il che genererebbe solo caos che al contrario non avviene, dimostrando un talento compositivo niente affatto male. Anzi.
Con queste premesse il sound di “Canto VII” non poteva che essere attestato su più che buoni livelli qualitativi. Sia per la sua compattezza, sia per la sua innegabile alea di un approccio serio e professionale. La mera esecuzione dei Nostri è senza alcuna pecca dimostrando, appunto, che la band ha raggiunto un punto fermo che le consente di battagliare a livello internazionale e non solo nazionale.
Colpiscono, in tal senso, le linee vocali; trascinanti come poche grazie, anche in questo caso, da un azzeccato intrico di growling e di un tono secco, aspro, arido, simile a quello delle harsh vocals. Interpretato dal nuovo cantante Davide “Dave” Arri in maniera da risultare il più aggressivo, devastante e cattivo possibile. Una prestazione di spicco che dà nuova linfa all’act meneghino, trascinando l’LP all’attacco della giugulare con fare a tratti devastante. Anche in questo caso, il variare continuamente i ridetti stili dona al platter il famigerato quid in più rispetto ad altri ensemble specialisti nel metal estremo.
Tutto quanto sopra si riverbera nelle canzoni, attestate su notevoli livelli di bontà compositiva. In un’epoca ove l’attenzione al seme da cui nascono le song viene spesso fatto seccare, prediligendo un approccio globale alla questione invece che puntuale, i Node tirano giù nove brani clamorosamente riconoscibili gli uni dagli altri. Bastano pochi ascolti prima per identificarli, poi per imparare quasi a memoria le singole tracce. Pure esse varie e diverse, atte a disegnare un insieme in cui annoiarsi è praticamente impossibile.
Tant’è che c’è addirittura l’hit, “Life on Display“, onorata da un chorus ultra-catchy (certamente non da supermercato, giusto per non incorrere in fraintendimenti) e da un assolo meraviglioso, di quelli che, come saette, bucano la scatola cranica per lasciare memoria di sé per lungo tempo. Forse per sempre. La brutalità e l’aggressività, al contrario, si trovano per esempio in “The Sacred Theather of Nothingness“, travolgente di song che scoperchierebbe anche un carro armato. Mentre, tanto per citarne un’altra, “The Cage” scatena un mid-tempo da headbanging spezza-collo.
E così via, camminando su un percorso parallelo a quello battuto da Virgilio; percorso ricco di varietà, personalità, a volte di genialità. Aggettivi che svelano la bravura di una formazione che, per tanti motivi, non ha sin’ora raccolto ciò che ha seminato: “Canto VII“, difatti, a parere di chi scrive, è la classica opera metallica che non si può non avere nella propria libreria.
Daniele “dani66” D’Adamo