Recensione: Carnal
L’India, nell’ambito del metal estremo, è nota ai più per essere la patria dell’ormai leggendaria etichetta specializzata Transcending Obscurity Records, inarrestabile fucina di band di ogni dove, dedite al death metal ma non solo.
Non solo essa, però. Ma anche le band stesse, numericamente in aumento ogni anno che, seguendo le orme dei precursori Demonic Resurrection, tentano con coraggio l’attacco al mercato internazionale.
Una di queste sono i Gutslit, nati nell’ormai lontano 2007 come appartenenti all’universo grindcore, così come testimoniato dai due primi full-length: “Skewered in the Sewer” (2013) e “Amputheatre” (2017). I tempi passano, le idee anche e così, quest’anno, il nuovo arrivato “Carnal” è testimone di una crescita inaspettata del livello qualitativo globale del combo di Mumbai. Una crescita sia a livello di tecnica, sia a livello artistico, sia per quando concerne la profondità delle tematiche affrontate, che cercano di farsi strada nei labirintici meandri della mente umana.
Una mistura di technical e brutal death metal sarebbe il modo più corretto e formale per descrivere il nuovo stile. Si potrebbe anche discutere di una forma, mai espressa sin’ora, di progressive grindcore, ma questo solo per dare l’idea di un’evoluzione che ha intaccato ogni singolo aspetto della musica dei Nostri. È chiaro che non manchino echi furiosamente *-core, giacché le origini non si dimenticano, tuttavia, davvero, il cerchio non può che chiudersi con le due succitate definizioni. Ma siccome, almeno per chi scrive, o è l’una o è l’altra, il finale di siffatta elucubrazione non può che rimandare al brutal death metal. Peraltro, si sa che anche il brutal, per essere espresso nella sua forma migliore, necessiti di una gran propensione allo studio sempre più raffinato della strumentazione utilizzata nonché della meticolosità del cantato.
I Gutslit sono tutto questo. Dinamici, freschi, moderni, in particolar modo all’avanguardia per ciò che concerne il tema death metal. La loro interpretazione è caleidoscopica, mutevole, frutto di una tendenza compositiva volta alla ricerca di nuove soluzioni, nuovi modus operandi, nuovi mondi da esplorare.
Un sound in perenne mutazione, grazie soprattutto all’ugola di Aditya Barve, che abbraccia con fervida naturalezza due generi vocali impegnativi come il growling e l’inhale… suinico, alternandoli con altrettanta naturalezza per delle linee vocali fluide e continue. Senza, cioè, che vi siano interruzioni di sorta o, peggio, indecisioni. Oltre a Barve, occorre rimarcare pesantemente lo splendido lavoro svolto dalla chitarra di Prateek Rajagopal. Assimilabile come axe-man del nero metallo, in virtù di una eccellente bravura nell’intessere una selva abnorme di riff. Talmente esagerata che incastrarsi in essa produce effetti simili all’agonia di un insetto intrappolato sulla tela di un ragno. Impossibile descrivere a parole l’immane riffing partorito dalla chitarra di Rajagopal, insomma, dotato per finire di un incedere preciso, perfetto, che pare seguire le soluzioni di qualche teorema di matematica avanzata.
Dato il talento dei due membri di cui sopra, è ovvio che basso e batteria non potessero che essere affidati ad altri due campioni. E così è. Aaron Pinto manovra la propria batteria con estrema complessità ma in modo comunque sciolto e scorrevole, come avviene nella violentissima ‘Bind Torture Kill’, giusto per citarne una. Gurdip Singh Narang alimenta, da par suo, l’erogazione dell’abnorme potenza prodotta dal gruppo. I suo basso è l’ideale per legare e chiudere gli spazi fra gli accordi della sei corde, bombardando l’etere in sottofondo, nel regno delle basse frequenze.
Benché il songwriting sia, come detto, innovatore, risultano ancora un po’ acerbe le canzoni. Intendendo con ciò che lo sviluppo al 100% di esse è ancora da raggiungere, in ordine a una non ineccepibile continuità strutturale. Sembra, cioè, che non sia stato ancora raggiunto l’optimum per creare dei brani ben diversi fra loro ma legati da un denominatore comune. Al momento, infatti, le tracce sono di difficile assimilazione non tanto per la loro tortuosità, quanto per il loro difficile inquadramento all’interno di un LP.
Si tratta comunque di un difetto teoricamente rimediabile dalla formazione bharatiana nel corso del suo cammino evolutivo che, comunque, non inficia più di tanto la validità di un’opera desueta come “Carnal”.
Bravi, davvero bravi, questi Gutslit.
Daniele “dani66” D’Adamo