Recensione: Carnival Diablos
Quando gli eventi della vita vanno a gonfie vele è facile godere del successo e confermare il proprio trionfo; il difficile è riemergere quando tutto gira storto, riuscire a prendere una boccata d’ossigeno non indifferente per poter prendere la rincorsa e riuscire a valicare, in salto, l’eminente muro della sconfitta e ritornare a vivere sotto i riflettori della dignità concretizzando nuovi progetti ambiziosi. Questo, in parte, è quello che si è ritrovato a vivere Jeff Waters nella sua lunga carriera alla guida della propria creatura: gli Annihilator.
Se Waters ha avuto una carriera difficilmente ripetibile, non lo si deve solo a un grande talento chitarristico, ma anche alla grande capacità che ha avuto di rialzarsi dopo lavori non proprio all’altezza del suo genio. Di sicuro l’avvio della carriera degli Annihilator è stata una fucilata: due album di livello altissimo, Alice In Hell e Never, Neverland, seguiti da un terzo lavoro, Set The World On Fire, che merita di essere rivalutato e riabilitato, perché non ha avuto la celebrazione che meritava. Da questo momento in poi la carriera degli Annihilator sembra entrare in una sorta di labirinto di Cnosso, in cui si perdono tra lavori di qualità non propriamente aderenti alla creatività di Waters, e che solo di tanto in tanto riescono ad uscirsene grazie a un colpo d’ali (volendo riprendere il contesto della mitologia greca) fatto di talento, gusto e genio musicale. Uno di questi colpi d’ali è sicuramente il bel disco del 2001 Carnival Diablos, Thrash con qualche venatura Prog, pubblicato dopo altri lavori deludenti e prima di altri parimenti sconfortanti, rappresentando, nelle intenzioni, uno spartiacque che in realtà non ha ottemperato pienamente al suo ruolo.
Ecco il limite degli Annihilator: bravissimi, talentuosi, godibili, armonici, estremi, simpatici, rivoluzionari, ma purtroppo mancanti di un aggettivo: costanti. Un percorso artistico composto da tante oscillazioni, con dischi che, nonostante il coraggio delle scelte, spesso hanno deluso e probabilmente nel rapporto tra aspettative e risultati, la band canadese è quella che riesce maggiormente a distinguersi. Un vero peccato, perché Jeff Waters rappresenta davvero un inno al talento, alle potenzialità, alla tecnica e all’inventiva ed è immorale non annoverarlo tra i migliori chitarristi in assoluto nel Metal. Un chitarrista diverso dallo stereotipo del genere, abilissimo sia con la chitarra distorta (spesso più ispirato dell’Hard Rock che dal Metal) che pulita (come nel disco in questione dimostra), però con pochi compromessi, dedito a suonare quello che vuole, senza inquinamenti o interferenze.
Probabilmente queste oscillazioni sono dovute ai continui cambiamenti di line-up della band, talvolta anche difficili da seguire, presumibilmente dovuti a un atteggiamento quasi da “datore di lavoro” tenuto da Jeff Waters che male si concilia in un ambito in cui passione, ispirazione e amalgama sono fondamentali.
Carnival Diablos (ottavo album) rappresenta dunque una parentesi felice in tutta la discografia degli Annihilator, una parentesi che raddrizza, e anche bene, la loro situazione e reputazione. Un disco che scivola via in modo piacevole sin dal primo ascolto e che da subito fa emergere alcune caratteristiche che fanno la differenza, una su tutte la voce particolarissima, mutante, melodica, aggressiva e coesa al contesto di Joe Comeau, ex Overkill e Liege Lord (band ingiustamente poco apprezzata), che rappresenta un notevole valore aggiunto a tutto il lavoro. In realtà tutto il livello della band, composta anche da Dave Scott Davis (chitarra ritmica), Russell Bergquist (basso) e Ray Hartmann (batteria), è molto alto e il disco di questo ne beneficia ampiamente.
Già il titolo, interessante commistione tra inglese e spagnolo e foriero di significati metaforici, rappresenta una spia della qualità del disco, un titolo che richiama alla mente in modo inequivocabile il capolavoro (a partire dall’artwork) dei Cathedral, datato 1995, The Carnival Bizarre; ma gli Annihilator, invece di un “carnevale bizzarro”, preferiscono trasformarsi in “diavoli carnevaleschi” o ancora più precisamente in “diavoli buffoni” per pubblicare un album all’altezza del loro blasone. Sicuramente il titolo non appare casuale se ci soffermassimo a pensare a uno dei significati del Carnevale: per i popoli indoeuropei questa festa aveva il compito di purificare e rigenerare ed è interessante notare come gli Annihilator con questo album trovino la forza per rinvigorirsi. Oppure, entrando in uno dei tanti significati mitici del Carnevale (quello della circolazione degli spiriti tra inferno, cielo e terra), questo rappresenta il passaggio, la risalita, dagli inferi al mondo abitato e di certo Carnival Diablos rappresenta una risalita da un punto basso della carriera della band.
In tutto il disco Jeff Waters si diverte a percorrere senza logica l’asse del tempo, come se fosse nel romanzo La macchina del tempo di H.G. Wells, perché nei brani sono ravvisabili continui tributi al Thrash vecchia maniera, ma che si proiettano anche verso stilemi moderni o più avanzati e geniali, tipo Holy Wars dei Megadeth. Le afferenze a questo capolavoro della band capitanata da Dave Mustaine, per esempio, sono chiare nel brano The Perfect Virus dove il particolare tocco di inizio brano di Waters si rifà a quanto fatto da Mustaine già nel 1990.
L’album si apre con Denied, una mitragliata, piacevolissima da ascoltare e non scontata; un brano ruvido, che si dipana a mo’ di interruzione di corrente per diventare poi claustrobico nella seconda parte. La melodia è bellissima, impreziosita dalle parti di basso che fanno tendere la sezione verso il Prog. Questo brano appare schizofrenico, così come il secondo, The Perfect Virus, spunta come una sassaiola a corto circuito che diventa cervellotica.
Carnival Diablos si caratterizza per questi attacchi mentali e per l’imprevedibilità nelle evoluzioni dei brani e di questo Time Bomb rappresenta un fulgido esempio.
Si è fatto accenno ai contatti che questa fatica musicale della band canadese ha con lo sviluppo del genere nel tempo, ma è anche possibile apprezzare altre contaminazioni, per esempio in Battered, bellissimo brano Speed dalla stupenda apertura melodica, si notano chiaramente i rimandi al Thrash dei primi Metallica, o in The Rush le parti di chitarra fanno materializzare sullo sfondo la figura di Joe Satriani.
I brani portano la firma inequivocabile di Jeff Waters e a proposito di firma, e quindi di mano destra, in Battered c’è un utilizzo magistrale di tale mano. Anche in questo brano emerge una forte connotazione psicologica, a un certo punto si ha la sensazione di ascoltare un brano pazzoide e questa sensazione si materializza con l’uso della leva della chitarra di Waters.
Come visto c’è sempre nel disco una tendenza a solleticare la psicologia dell’ascoltatore e questa emerge anche nel finale, allorquando una chiusura ironica lascia un terminale ricordo positivo che spinge a riascoltare con piacere l’intero album.
Procedendo un po’ nel dettaglio dell’album, apre le danze Denied, brano dal riffing spaccaossa di Jeff Waters all’unisono col rullante di Ray Hartmann in pieno stile Annihilator. Il suono è secco fino all’inverosimile e si gioca in post produzione con i canali left and right degli speaker. Tema in diminuito prima del verse e qui, come già accennato, c’è la vera sorpresa: Joe Comeau al microfono. Il suo timbro è davvero azzeccato al sound della band. Da registrare subito, purtroppo, il volume delle lead vocals un po’ troppo al di sotto degli altri strumenti (soprattutto rispetto alle chitarre). In chorus è davvero intrigante, con la carica che contraddistingue un vero brano opener che si rispetti. La cassa è sempre in primo piano ed è immancabile l’headbanging! Il bridge è puramente strumentale, pochi fronzoli e tanta tecnica. Il tema iniziale è piuttosto semplice e il solo che lo segue sembra tratto da Brain Dance (da Set The World On Fire) soprattutto nelle armonie della parte finale. La ripresa in struttura è con un finale esplosivo con Jeff Waters che sembra non avere pace col suo strumento.
L’Intro con armonici naturali e power chords appartiene a The Perfect Virus, seconda track de disco con attacco in mid tempo. Effetto stile megafono per Joe Comeau, davvero evocativo. La parte centrale della song risulta molto effettata, flanger e wha la fanno da padrone e non vi è una vera e propria parte solista. Il tutto è molto godibile ma è con la terza traccia che finalmente il combo canadese sgancia la bomba: Battered. Riff “spaccamano” di Waters (che gioca come sempre con i pan left and right) e molto belli, ma non sono originalissimi i contrasti di terza del sempre ottimo David Scott Davis all’altra chitarra. Il verse è un macigno, ma la stangata è nel chorus. Le varie parti della canzone respirano bene e non vi è quell’effetto claustrofobico che molte volte attanaglia alcuni passaggi della band di Waters. Apertura in ballad nella parte centrale con arpeggi e assolo preso dal manuale “watersiano” (sembra improvvisato eppure rappresenta perfettamente lo stile di questo chitarrista). La suddetta apertura ricorda Second To None (da King Of The Kill) sia nelle esecuzioni che nelle intenzioni. Un sound inconfondibile che farà gridare al miracolo i fans di vecchia data. I tempi sono serrati nell’evoluzione successiva e sono ancora una volta bellissime le parti in lead guitar in polifonia. La reprise è un ritorno alle origini con finale epocale, di armonici e leve in fade out, che ricorda gli ultimi secondi di Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts (sembra strano, ma è così) dei Manowar ai tempi di David Shankle.
La title track è da brivido. Un intro in crescendo che apre direttamente sul chorus, uno di quelli che si ricordano dopo il primo ascolto e che sembrano fuoriuscire dal Quincy Jones più ispirato. Uno dei marchi di fabbrica di Jeff Waters è l’uso di arpeggi statici con i bassi discendenti, accordi alterati con grosse estensioni sia armoniche (che anatomiche) che risultano evocativi con l’utilizzo di corde a vuoto. Si parte con la strofa e la prova di Comeau è davvero convincente. A dirla tutta risulta una delle migliori voci prestate agli Annihilator, di gran lunga molto più espressivo del futuro Dave Padden (e anche più esperto nel settore). Forse la sua pecca è stata la poca (o nulla) presenza scenica in sede live, ma comunque su Carnival Diablos è quello che ci voleva. Con la parte strumentale gli arpeggi di cui sopra alternano il movimento dei bassi (questa volta a salire) per poi dar vita al trash sincopato tipico del combo.
Anche se la riflessione potrebbe apparire inflazionata, con Jeff Waters c’è sempre il cosiddetto “bis” alla AC/DC: si immagini di essere a un concerto di una qualsiasi band emergente che nel finale del proprio set propone un’improvvisata jam in pieno stile August Young e soci. Il brano in questione è Shallow Grave, puro Rock and Roll e nulla più. Time Bomb è un po’ sottotono, pochi spunti e anche a tratti fastidiosa con i suoi falsetti nel chorus.
Segue The Rush, intro in flanger con un riff non proprio originale, ma che funziona molto bene rientrando nella struttura tipica di un brano firmato Annihilator. Qui le chitarre sono addirittura più alte della voce e suonando assieme nella strofa distolgono l’attenzione dell’ascoltatore. Una scelta molto discutibile in fase di mix, ma un vero peccato perché vocalmente ci sono delle belle idee, anche se semplicissime.
Intro con arpeggio e voce (questa volta parlata) per Insomniac, riffing da manuale e giochi di doppia cassa del solito Drum Machine Man Ray Hartmann. Inusuale l’apertura dopo la parte strumentale, ci dona quel senso di “finto finale” ma che in realtà è solo un incipit a riprendere da zero.
Alcuni la definirebbero ruffiana, altri sognante, la strumentale Liquid Oval che segue alla lettera quella che è la ricetta di Catch the Wind (dal precedente King Of The Kill). Si parte con un arpeggio ostinato di Re minore nona dove i bassi scendono a creare giochi armonici di cui sopra per poi creare soste e parti cadenzate con fill e stacchi di batteria precisi, ma forse un po’ banali. Lo special è mezzo tono più basso, si lavora per creare più ambienti di lavoro e destabilizzare l’ascoltatore forse dall’aridità armonica di fondo. Tutto sommato però è di gran classe, atmosferica e utile a creare una giusta pausa prima del finale di questo Carnival Diablos.
Epic of War è quasi power metal nell’attacco iniziale, rientra nei canoni Thrash subito dopo. Non aggiunge molto all’intero album, ma qui i fans degli Iron Maiden saranno contenti per via dei duetti strumentali (ma mai quanto quelli dei Running Wild a sentire cantare lo special di questa song).
Chiude l’album Hunter Killer, forse all’anagrafe la traccia più lunga finora registrata da Waters e soci, con i suoi 9 minuti di puro “Annihilator Sound” (in realtà contiene al suo interno una ghost track così improbabile che ci asteniamo dal commentare). Intro molto posata e poi una sfuriata chitarristica letteralmente presa in prestito da Human Insecticide (dall’album di debutto). Il sound si fa più old school proprio nel finale del disco. Ispiratissima e davvero degna chiusura di un disco non molto valutato (nemmeno dal combo stesso a dir la verità), ma che di sicuro è tutt’altro che un flop.
In definitiva un album dallo standard qualitativo non sempre altissimo, di sicuro non paragonabile ai primi tre capolavori della band, ma comunque superiore ad altri lavori quali Refresh The Damon, Remains o All For You; in questo disco gli Annihilator gettano la rete nel passato e da qui pescano alcuni brani tipo The Rush o Insomniac, ma il tutto appare godibile e non fuori dal tempo. Questa tendenza a tornare alle origini, prima della crisi che il Thrash conosce negli anni ’90, già si era manifestata con Criteria For a Black e Window, ma con Carnival Diablos gli Annihilator consegnano un album piacevole, interessante e nonostante tutto non decontestualizzato, un lavoro musicale in linea con lo spessore del leader canadese.