Recensione: Carved in Stone

Di Riccardo Angelini - 30 Agosto 2006 - 0:00
Carved in Stone
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Anno: 1995
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95

1991: Dopo più di un decennio di gavetta, tre ragazzi – Carl Cadden-James (basso), Mike Baker (voce) e Brendt Allman (chitarra) – incidono in un piccolo seminterrato un demo di otto tracce. Tale demo finisce nelle mani della Magna Carta, label emergente che nello stesso anno ha deciso di scommettere su un’altra band di belle speranze – i Magellan. Il disco, completato con l’innesto delle tastiere di Chris Ingles e con la programmazione di una drum-machine (confidenzialmente battezzata “Ben Timely”), procaccia un immediato contratto agli Shadow Gallery. Non solo: la Magna Carta vuole dare un seguito immediato al debutto dei Magellan, e insiste per immettere sul mercato l’esordio della band pennsylvana così com’è. Detto fatto: l’album esce nell’estate 1992 e sarà ricordato, oltre che per la pessima qualità della registrazione, anche per l’ottima qualità dei brani.

Tre anni dopo la famiglia degli Shadow Gallery si è allargata. Chris Ingles è tornato nella formazione in pianta stabile, il session-man Gary Wehrkamp si è guadagnato nel giro di tre settimane un posto fisso alla chitarra, l’elettronico Ben Timely è stato rottamanto: al suo posto, dopo tanti tentativi a vuoto, giungono la carne e le ossa di Kevin Soffera.
E’ tempo per la band di confermare il proprio valore, dimostrando che il debutto di qualche anno prima non rappresentava soltanto l’estemporaneo passaggio dell’ennesima cometa musicale. Qualche recidivo problema all’attrezzatura e una temporanea defezione di Ingles – egregiamente sostituito alle tastiere dallo stesso Wehrkamp – ritardano l’uscita dell’atteso ritorno, ma nel luglio del 1995 l’album vede la luce. Il titolo è profetico: Carved in Stone.

Con il loro secondo album, gli Shadow Gallery imprimono infatti un solco indelebile nelle cronache del metal anni ’90. Dal punto di vista prettamente musicale, Carved in Stone è probabilmente il disco più squisitamente prog-oriented che la band abbia mai composto nonché, a giudizio del sottoscritto, la somma vetta di una discografia fatta di soli alti. L’opener Cliffhanger può ormai considerarsi un vero e proprio classico del repertorio degli statunitensi, per non dire del prog metal in generale. Lenta, inesorabile, gelida nelle atmosfere e bollente nei suoni, si arrampica su note sofferte, quasi epiche, sorretta nella prima metà da un riffing statuario e da un eccelso Baker. Poi spazio agli assoli: una tempesta di chitarre e tastiere si abbatte sul granito della sezione ritmica, che imperturbabile regge le ripetute sferzate elettriche, prima di recuperare di nuovo il motivo portante ad appena un passo dalla vetta. Da applausi, ed è solo l’inizio.
Dopo un breve interludio strumentale (di qui alla fine ce ne saranno diversi) è il momento di Cristalline Dream. Alla faccia di chi ancora ritiene il prog metal un mero sfoggio di fredda masturbazione tecnica. Basso, chitarra e batteria approntano il terreno su cui Mike Baker, per chi scrive una delle voci più espressive del settore, deciderà le sorti della battaglia. Il brano è insieme trascinante e suadente, i cori – semplicemente stellari – recano nel proprio DNA chiare tracce dei migliori Queen, le tastiere aggiungono quel tocco di atmosfera e imprevedibilità che suggella un altro degli highlight del disco. Ma è davvero difficile trovare passaggi sottotono. Neppure la semi-ballad Don’t Ever Cry, Just Remember si smentisce, con voce e pianoforte accompagnano l’ascoltatore in un viaggio malinconico, diretto a quel tripudio di emozioni che è il refrain. Ancora una volta sono i cori a rivelarsi la vera arma in più degli Shadow Gallery, profondi e struggenti, di quelli che potrebbero sciogliere anche le pietre.

Ma ora tocca a un terzetto d’eccezione.
Warcry: una lunga intro di piano fa da preludio all’entrata in scena di Baker, prima, e degli strumenti, poi. Ora enfatica e trionfale, ora grave, quasi drammatica, la canzone è una fiera ode dedicata agli indiani d’America, il cui apice è collocato nell’assolo-capolavoro che apre la via in grande stile maideniano a un nuovo chorus dall’impatto sconcertante, arricchito da sontuosi arrangiamenti orchestrali.
Celtic Princess: due minuti appena per una strumentale poco appariscente ma altresì piacevole, che sostituisce il canonico break sinfonico. E’ il momento di tirare il fiato, perché sta per arrivare il piatto forte.
Deeper Than Life: LA canzone degli Shadow Gallery. Dinamica, elettrizzante, incontenibile nel suo adrenalinico incalzare, Deeper Than Life è il capolavoro nel capolavoro. Al pari di un sol uomo questi sei ragazzi danno il meglio di sé con il loro pezzo più tirato, il più metallico. É una dimostrazione di forza che elude l’aspetto meramente tecnico, peraltro fuori dal comune, tale da guadagnare alla band il pieno diritto di cittadinanza nell’elitario campo del sublime. Semplicemente inarrivabile.

Ci avviciniamo al gran finale. Nell’attesa la ballad Alaska aiuta la mente a riaversi, mente i battiti cardiaci ridiscendono lentamente a ritmi tollerabili. Intanto le note scorrono via liscie come l’acqua. Così, zitti zitti, gli Shadow Gallery segnano un altro punto a proprio favore, con un brano discreto e gentile, che in questo contesto non attira troppo l’attenzione, ma che per tante, tantissime band resta un irraggiungibile miraggio.
E’ il momento di Ghostship. La suite degli Shadow Gallery non sarà forse la loro creazione complessivamente più riuscita (più che altro a causa degli elevatissimi standard di qualità degli altri brani), ma nella sua articolata disorganicità nasconde alcuni dei momenti compositivi più intriganti dell’album. L’inizio è a dir poco arrembante: tastiere subito protagoniste, accompagnate da un riffing deciso che sospinge un pungente Mike Baker verso una spettacolare sequenza di cori. Poi largo spazio agli strumenti: prima con uno scatenato assolo di chitarra (forse un attimo prolisso), poi con un arpeggio di grande atmosfera che si distende senza fretta per aprire a un break stranito e spiritato, quasi da colonna sonora. E’ il preludio al ritorno di tutta la strumentazione al gran completo. Rapidi scambi chitarra-basso-tastiera, soluzioni ritmiche fini e ricercate, assoli fulminanti da mozzare il fiato – c’è di che farsi venire mal di testa. Non manca un’intera sezione di pianoforte dal gusto fortemente classico, fatta di fughe pirotecniche, improvvise accelerazioni e di brusche frenate; una parentesi di gran classe che spezza la continuità del predominante apporto heavy. Siamo all’epilogo. Tra un riff e l’altro si rivede anche il buon Baker, mentre poco a poco la musica si dirige con disinvolta naturalezza al proprio crepuscolo.
Finita? Non ancora. Un lungo silenzio, poi un ticchettio inquietante, una porta che si apre, e infine l’imprevista hidden track: un prelibato brano interamente orchestrale della durata di circa cinque minuti: da non sottovalutare affatto, nonostante la scomoda posizione nella scaletta.

Siamo veramente giunti alla fine. Si era suggerito che Carved in Stone è un grande album di progressive metal, si potrebbe aggiungere che è un disco che non ha paura di guardare negli occhi i capisaldi del settore, ma a questo punto verrebbe piuttosto voglia di rimangiarsi questo detto. Carved in Stone non è una di quelle opere da confinare entro un genere piuttosto che un altro. Carved in Stone è semplicemente un dischetto pieno di buona musica, di quella che potrebbe piacere a chiunque: definizioni ed etichette lasciano il tempo che trovano. Forse il popolo non avrà ancora decretato la sua investitura a classico ma, potete scommeterci, è solo questione di tempo.

Tracklist:
1. Cliffhanger (8:50)
3. Crystalline Dream (5:45)
5. Don’t Ever Cry, Just Remember (6:25)
7. Warcry (5:56)
8. Celtic Princess (2:04)
9. Deeper Than Life (4:33)
11. Alaska (5:21)
13. Ghostship (21:56)

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