Recensione: Casket Case
“To win a woman, take her with you to see Dracula” (Bela Lugosi)
L’orrore, l’incomprensibile, la paura, evocano un’inconsueta concupiscenza per il pericolo, per l’abisso. E il rock, la musica del diavolo nelle sue varie declinazioni, ne è sempre stata la sposa perfetta. Soprattutto la variante horror-punk appare sempre in voga. Iniziarono i The Damned, poi i Misfits con i seminali album che vedevano Danzig alla voce: trucco da cadaveri, look da gang dedita alla profanazione di cimiteri (accusa che venne in effetti mossa alla band), testi e immaginario legati al mondo del cinema horror di serie Z. Riprendevano la lezione dello shock rock di Alice Cooper e di Arthur Brown per spararla rapida con pezzi brevissimi e caciaroni.
Da Rob Zombie, a Wednesday 13, passando un po’ dalle parti degli AFI, dei The 69 Eyes e continuando la lezione dei Misfits sotto la guida di Doyle, l’horror declinato in rock è arrivato vivo (o morto vivente) fino ai nostri giorni e, soprattutto nella forma del punk, trova nuovi rappresentanti nei tedeschi The Other che tentano il salto di qualità con il nuovo “Casket Case”.
Fin dai loro esordi 15 anni fa, i succhia sangue di Colonia radunati intorno al leader non morto Rod Usher hanno dimostrato in sei dischi, in due fumetti e in centinaia di concerti in tutto il mondo che George A. Romero aveva ragione: “Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra” pronunciava Ken Foree in” Dawn of the Dead “.
“Casket Case” (che nel titolo è un piccolo tributo giustificato a “Basket Case” dei Green Day) consegna 16 nuovi racconti dalla cripta registrati nello studio del rinomato Waldemar Sorychta e rigurgitati da una band che era quasi morta e scomparsa solo due anni fa e che ha trovato nuova linfa con i nuovi chitarristi Ben Crowe e Pat Laveau.
L’implacabile punk di “Party At Crystal Lake” si presenta come un inno veloce, in chiaro stile Misfits, e dimostra come l’horror dovrebbe sempre andare di pari passo con una certa dose di umorismo, e il chiedersi se andare o no ad una festa in quel di Crystal Lake è tanto pericoloso quanto divertente. Il singolo “She’s A Ghost” rallenta e si fa più pesante nell’andazzo, con toni oscuri e gotici, per poi aprirsi in un coro melodioso che ricorda certi Avenged Sevenfold degli inizi. La voce baritonale di Rod Usher ricalca quella di Danzig e di Ian Ashbury dei The Cult (con meno potenza e valore espressivo, si intende) e i “go go!” si sprecano, così come i coracci da punk scalmanati (“Counting The Flies”). I The Other uniscono seduzione erotica a paludi fangose, tuoni, fulmini e nebbie striscianti (“Dead And Gone”) e il loro songwriting poggia le basi su tendenza pop in modo d lasciare ritornelli che facciano presa e spingano l’ascoltatore a canticchiarli.
“Morgen Ohne Grauen” è una concessione alla propria lingua madre e i suoi “uoh oh oh” portano sempre il marchio Misfits ben stampato sui loro volti da zombie e fantasmi. La band convince di più quando riesce a far convivere senza sbilanciamenti la parte dura e dai toni più metallici, con il refrain orecchiabile, come avviene per esempio nell’ottima “Faith And The Fallen” che porta una certa gradazione di epica decadenza. Piace anche la ballad gotica in odore di The 69 Eyes “Till Death Do Us Part” con un bel ritornello epico e drammatico.
I The Other non inventano e non vogliono inventare nulla, seguono schemi precisi già forgiati e collaudati dai vari numi tutelari, ma tentano di inserire delle interessanti variazioni come la voce femminile in “Little Black Riding Hood”, meno scanzonata di altre tracce e con un’aurea da racconto gotico ottocentesco. Oppure nel riff e nelle strofe incazzose di “Not My Usual Self”, pezzo tra i più metal del lotto che piazza anche una parvenza di assolo ricercato. D’altronde, stando alle parole di Usher, “Casket Case” parla di conflitti sociali, umani o politici, mascherati da storie horror sanguinolenti piene di omicidi e mostri. Anche se a volte una canzone sugli zombi è solo una canzone sugli zombi senza null’altro a chiedere (la spedita “The Horror Of It All”, il punk banalotto di “X-Ray Eyes”).
Il singolo “End of Days” ha un tono completamente diverso. È un nebbioso requiem goth rock (ancora forte il richiamo ai The 69 Eyes) una canzone su una relazione andata in pezzi che si regge su strofe cupe e di nuovo un ritornello melodioso stile AFI. Si nota una velata ricerca di una teatralità apocalittica come fanno bene gli Avenged Sevenfold oggigiorno, ma i The Other preferiscono poi ripiegare nel confortante loculo dell’horror punk, tranne poi piantare una zampata piena di artigli ricurvi con la penultima “Werewolf Of Bedburg”, più cadenzata e dallo spirito di metallo, che potrebbe stare bene nelle corde di certi Helloween (con i dovuti accorgimenti). Nella coda finale c’è anche un breve passaggio-omaggio a “Black Sabbath”. Sicuramente questa è una delle tracce più valide del lungo “Casket Case” prima della chiusura affidata alla semi-acustica “What It’s Like To Be A Monster”, una mortifera ballad dal mood depresso, utile a concludere la corsa scivolando con mestizia nella fossa.
I The Other riesumano quindi l’eredità dei Misfits e dei The Damned, la contaminano con cadaveri in decomposizione, fantasmi sensuali e zanne imbrattate di sangue, per scatenare la propria aura posseduta da demoni Rock’n’Roll in un presente apocalittico e crudo. Non ci troviamo alle prese con un album imprescindibile né ricercato, chi vuole metal tout court, sperimentazione, novità, può passare oltre. I fans delle band citate come ispirazione, e in generale chi vuole dal rock anche una dose di umorismo nero, di quelle atmosfere pacchiane da B-movie horror, unite a un pizzico di decadentismo gotico, può affrontare con sicurezza l’ascolto di “Casket Case”.