Recensione: Casting the Circle
Secondo album per le losangeline High Priestess, “Casting the Circle” arriva a due anni dal debutto omonimo del trio femminile, dedito a un affascinante miscuglio di stoner, doom e rock psichedelico dall’intenso afflato rituale che mi ha subito affascinato con le sue suggestioni mistiche e le atmosfere incombenti e sacrali. Cinque tracce per quarantadue minuti di durata, durante i quali le nostre signorine, pur giocando quasi sempre sul sicuro, riescono comunque ad avviluppare l’ascoltatore nel loro mondo fatto di tempi lenti e atmosfere plumbee, melodie incombenti ed improvvisi indurimenti del suono che di tanto in tanto vengono squarciati da divagazioni dal sapore settantiano, splendide armonie e un comparto vocale azzeccatissimo. Proprio quest’ultimo aspetto del trio costituisce, a mio avviso, l’aspetto chiave della proposta dell’alta sacerdotessa californiana: il bilanciamento tra l’angelica voce pulita e i cori funziona già di per sé molto bene, trasmettendo il giusto mix di inquietudine e tranquillità, ma è quando si fonde col reparto strumentale che avviene la vera magia. Insinuandosi tra riff di chitarra sornioni, un percussionismo cupo e tetro ma anche velatamente languido e l’intenso lavorio del basso, infatti, lo splendido intreccio di voci corona in maniera impeccabile le architetture sonore delle tre donzelle, creando infine un unicum ammaliante ed ipnotico non privo di una certa solennità rituale da cui è assai difficile svincolarsi.
Si parte col minaccioso incipit della title track, dominata da un ritmo lento e seducente che, una volta affiancato dalle linee vocali, tratteggia alla perfezione l’atmosfera sacrale che ammanta tutto l’album. L’ingresso in scena del resto degli strumenti e l’ispessimento del suono nella seconda metà non fanno che intensificare l’aura rituale di cui è pervaso il brano, salvo poi sfumare nell’ottima “Erebus”, in cui lo spettro dei primissimi Black Sabbath inizia ad aleggiare sull’oltreoceanico terzetto. In realtà, più che dell’opera generica del gruppo di Birmingham è proprio della canzone “Black Sabbath” che si percepisce l’influenza durante l’ascolto, col suo incedere circospetto e strisciante che viene caricato, dalle High Pirestess, di note di volta in volta inquiete, innocenti e sensuali. La traccia si mantiene su ritmi lenti, lentissimi, ripetuti fino allo sfinimento e sempre marcati stretti da una voce fredda, sovrastante e lamentosa. Le chitarre punteggiano questo tessuto sonoro con assoli lenti, distorti e dal carattere plumbeo, crepuscolare, che si fanno sempre più insistenti e minacciosi man mano che si procede col minutaggio, fino alla chiusura incombente. Con “The Hourglass” si mescolano un po’ di più le carte, introducendo sfavillanti contrasti vocali dal profumo a tratti blueseggiante ed innestandoli su un tessuto pensoso, il cui incedere psichedelico e le melodie circolari acuiscono l’atmosfera trasognata e per certi versi claustrofobica del pezzo. E si arriva ora alla lunga “Invocation”, probabilmente l’apice emotivo dell’album, che con i suoi quasi diciassette minuti e mezzo costituisce una sorta di manifesto del High Priestess–pensiero. Il pezzo parte lento, guardingo, sostenendosi su un ritmo ambiguo e frastagliato e giocando con le continue intromissioni di chitarra e basso che, alternandosi o fondendosi alle armonizzazioni vocali creano un incessante andirivieni emotivo, in cui le tre sacerdotesse continuano ad aggiungere elementi fino a creare un complesso tappeto sonoro fatto di passaggi acidi e melodie serpeggianti, improvvisi echi orientaleggianti e assoli aridi e riarsi. L’improvviso indurimento che arriva a metà canzone rimette sul piatto la cupa solennità rituale che si era un po’ persa per strada con la traccia precedente, che in un attimo apre a un intermezzo narrato sorretto da ritmi incombenti e chitarre pesanti. Il profumo mediorientale che si appropria della seconda parte del brano accompagna idealmente l’ascoltatore tra le ombre di templi babilonesi, mentre il tema portante che aveva aperto la traccia torna a farsi vivo, sostenendo un cupo sussurro e facendosi sempre più incalzante fino al ritorno dell’incombenza tipicamente doom che pone il sigillo su un brano poderoso, emotivamente denso e atmosfericamente sublime. Il compito di chiudere le danze è affidato ad “Ave Satanas”, languida invocazione in cui le voci sono padrone della scena, intrecciandosi, cercandosi e fondendosi tra loro per scaricare così la tensione accumulata durante il resto dell’album con un anticlimax che sa tanto di scampato pericolo.
“Casting the Circle” mi è piaciuto molto, ma sicuramente non è un album per tutti: è un lavoro che vive di suggestioni, e da il meglio di sé quando gli viene lasciato il tempo di creare una certa tensione; per questo motivo necessita di una certa attenzione da parte dell’ascoltatore, ma ha tutte le carte in regola per far breccia in più di un cuoricino. Se amate le atmosfere oscure e solenni, dal profumo sacrale, e cercate un album che evochi sensazioni ambigue e serpeggianti, beh, eccolo qua.