Recensione: Catch Thirtythree
Sgombriamo subito il campo da ogni minimo dubbio: Catch Thirtythree è
un altro disco immancabile, un tassello inevitabile di quel percorso musicale
intrapreso dai Meshuggah, a partire dallo storico Destroy
Erase Improve, verso lo sperimentalismo più assoluto all’interno di
coordinate dure, pesanti ed asfissianti. E chi li ama da allora non potrà non
adorare anche questo monolite.
Annunciato con squilli di tromba dal precedente esperimento dell’EP I,
uscito sulla piccola label di un loro amico ed entrato subito nella top list di
moltissimi fans, Catch Thirtythree torna ad essere un unico blocco
musicale, un concetto definito da 13 capitoli ad illustrarne i vari passaggi, i
momenti topici ed i cambiamenti d’umore: il suono del gruppo torna a farsi lento
come su Nothing
ma guadagnandovi in pulizia sonora (il citato album giocava infatti su suoni
“torbidi”, puliti ma non troppo, estremamente pastosi). Qui la
produzione torna ad avvicinarsi a Chaosphere: una precisione chirurgica
quindi, un mood molto industriale (o meglio, industriale in modo diverso) che
scolpisce tutti i riff di chitarra, con una capacità evocativa rara per suoni
così intransigenti. Come il batterista Tomas Haake rivela in sede
d’intervista, la band ha proseguito con l’uso delle famose chitarre ad 8
corde, novità da loro stessi introdotta nel precedente full-length, iniziando
però da questo disco l’utilizzo totale della drum machine, che non modifica
assolutamente i celebri patterns ritmici dei Meshuggah ma rende il tutto
ancora più robotico. Si è trattato in effetti di una necessità, vista la
complessità tecnica della realizzazione del disco, una necessità che però la
band ha accettato di buon grado, nell’ottica di quella mancanza di paraocchi che
da sempre li contraddistingue.
Per la sua maggior parte cadenzato, l’album presenta anche momenti di
insolita atmosfera, come il break centrale rappresentato da In Death – is
Death con le sue vocals parlate e gli arpeggi liquidi di Fredrik; ma
è comunque inutile estrapolare singoli passaggi dall’album, che va assorbito
nella sua totalità. Un album che si apre al pubblico senza essere un prodotto
di largo consumo e mantenendo un grande, grandissimo spessore compositivo.
E’ quindi di nuovo un disco “progressivo”, Catch Thirtythree:
l’essenza circolare resa sin dall’artwork viene espressa all’interno di una
composizione che va e torna, si eleva e si calma, come un’unica onda in cui sono
immersi momenti e pensieri da scoprire ad ogni ascolto. Indefinibile come sempre
il genere musicale, o perlomeno quelle che noi chiamiamo “etichette” e
che servono a spiegare al lettore che cosa la band in questione ci stia
presentando… ma non è uno svantaggio, assolutamente. Il “thrash”
che vedete là in alto è ovviamente solo una definizione di comodo, in realtà
molto poco calzante, ma che definisce perlomeno il punto di partenza di questo
gruppo, che iniziò proprio da un thrash simil-Metallica per forgiare questo colosso
futuristico che è il suono del metal estremo, o almeno di una parte di esso,
nel terzo millennio. Per fortuna sono inimitabili, ma col loro stile riescono ad
ispirare gruppi più giovani senza per questo vedere nascere ogni giorno dei
cloni: Catch Thirtythree è un altro album che fa scuola, anche a
chi non li prenderà mai in considerazione.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. Autonomy Lost
2. Imprint of the Un-Saved
3. Disenchantment
4. The Paradoxical Spiral
5. Re-Inanimate
6. Entrapment
7. Mind’s Mirrors
8. In Death – Is Life
9. In Death – Is Death
10. Shed
11. Personae Non Gratae
12. Dehumanization
13. Sum