Recensione: Cauterize
Mark Tremonti è uno che ne sa.
A quarant’anni suonati e in virtù dei rilevanti riscontri di pubblico e di critica ottenuti nel corso di una onorata carriera musicale perlopiù associata a due pesi massimi come Creed e Alter Bridge, il chitarrista originario di Detroit si è guadagnato sul campo un seguito e una credibilità tali da farlo entrare di diritto nel novero dei grandissimi.
Se, quindi, sul Tremonti chitarrista e compositore non v’era dubbio alcuno, piacevolmente sorprendente si è al contrario rivelata la sua disinvoltura nel destreggiarsi anche nel ruolo di cantante nell’ambito del recente progetto solista. Una sfida non da poco, i cui felici esiti hanno permesso di mettere in luce ed apprezzare a trecentosessanta gradi le enormi doti di un musicista in grado di scrivere, suonare e pure intonare canzoni caratterizzate da una ormai perfetta padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi nonché dalla giusta dose di immediatezza indispensabile per fare presa sul grande pubblico.
A questo proposito “All I Was” fu il primo gradino e se, ai primi ascolti, l’ovvio paragone con l’ugola di Myles Kennedy parve volgere inzialmente a suo sfavore, va detto che sulla lunga distanza – anche grazie all’elevato valore contenutistico delle ben dodici canzoni – il buon Mark si dimostrò assolutamente degno di ricoprire quel complicato ruolo.
“Cauterize” – primo capitolo di una doppietta che troverà completo compimento entro il 2016 – esce a distanza di tre anni dalla release del predecessore e poco dopo il ritorno in pompa magna degli Alter Bridge con il cupo (ma memorabile) “Fortress”, configurandosi come il prosieguo di quell’avventura: una mirabile discesa verso il lato più oscuro del sound tremontiano.
In “Cauterize” convivono l’urgenza dell’hard rock, distorsioni groove da far invidia ai Machine Head, melodie da mille e una notte – intonate, peraltro, con piglio sempre più sicuro – e un evidente lirismo di fondo che trova una perfetta espressione in un coté strumentale nel quale il retaggio a mezza via tra post grunge ed hard rock pare trovare in alcuni momenti una vena addirittura cantautorale.
“Radical Change” e “Arm Yourself” tirano fuori il lato più energico e aggressivo di “Cauterize”: due canzoni veloci e slanciate quanto nel contempo toste e granitiche, eppure “Flying Monkeys” – con il suo flavour à la Alice In Chains – e la più ariosa “Tie The Noose” non sono certo da meno.
Indugiano, al contrario, forse un po’ troppo nella ricerca della melodia orecchiabile le pur valide “Cauterize” e “Another Heart”: tutt’altro che prive di spunti d’interesse, non sembrano però trovare un adeguato compimento in due refrain fin troppo cantabili. Poco “male”, ad ogni modo: con la doppietta costituita dalla splendida “Dark Trip” – addirittura epica nel proprio sconfinare verso lidi blues, alla maniera della consanguinea “Lover” – e dalla più malinconica e Alter Bridge-iana “Fall Again”, in pochi istanti si torna a far sognare ad occhi aperti.
La chiusura in grande stile viene infine affidata a “Simpathy” e a “Providence”, con tutta probabilità i due brani nei quali l’influsso di un quarantennio di rock a stelle e strisce – in tutte le sue sfumature – si fa maggiormente sentire, donando loro un respiro quasi Springsteen-iano fino ad ora inedito a queste latitudini.
Forse “All I Was”, anche grazie alla forza della novità e ad una certa quale impudenza – tipica del debutto e qui del tutto limata – vince ai punti nel confronto diretto con “Cauterize”. Dal canto suo il nuovo parto di casa Tremonti apre la via a una serie di potenziali interessantissimi sviluppi nell’economia del sound dell’artista americano, proponendo almeno quattro/cinque perle di valore assoluto disseminate all’interno di quarantaquattro minuti di metal forse mai così pesante, oscuro ed emozionante.
Serve altro?
Stefano Burini