Recensione: Chaos Abomination
Da sempre il sud dell’America ha interpretato nel modo più aggressivo possibile il metal estremo, aggiungendo una dose di belluina ferocia alle sonorità più malsane provenienti da Europa e Stati Uniti. È stato così sin dai primi anni ’80, ed è così anche ora, come dimostrano i tre indemoniati figuri che rispondono al nome di Atomicide.
Un nome piuttosto noto, relativamente al più profondo underground, giacché le tacche sul manico del fucile dei Nostri non sono poche. Fra demo/EP/compilation/split e full-length, difatti, più o meno si arriva alla decina di uscite in dodici anni di carriera. Decina chiusa, al momento, dal secondo album “Chaos Abomination”, giunto dopo nemmeno due anni dal debutto “Spreading The Cult Of Death”.
A caratterizzare gli Atomicide non ci sono solo le abbondanti realizzazioni discografiche, però. La furia demolitrice dei cileni è talmente esagerata, infatti, che è difficile se non impossibile restare indifferenti a un sound travolgente, devastante, annichilente. In “Chaos Abomination” non è stato concesso nulla a ciò che non fosse mera distruzione. Da dimenticarsi meccanismi evolutivi oppure contaminazioni e progressioni. Il death metal sparato a quattrocento chilometri all’ora dal terzetto di Iquique è esagerato in tutto e per tutto. Il flavour è, sì, chiaro: old school. Ma solo quello. Il resto è sfascio assoluto, rovina inimmaginabile.
L’impossibile muraglione di suono eretto dai terremotanti riff di Deathbringer, imperscrutabile nella sua misteriosa capacità di riuscire a imbastire un simile guitar-work da solo, unitamente ai velocissimi blast-beats di A. Prophaner e al delirio microfonico di Atomizer, connotano uno stile apparentemente caotico, da non confondersi con fantastico il delirio ipercinetico che permea “Chaos Abomination”. Certo, in talune occasioni si accenna a qualche mid/up-tempo (incipit di “Megaton Desolation”), ma si tratta sostanzialmente di una chimera beffarda, irraggiungibile, questa pausa fra un bombardamento e l’altro: la deflagrazione nucleare rade al suolo qualunque cosa. Con una continuità e determinazione tali da spostare gli Atomicide davvero al di sopra delle righe. Tanto più che una resa sonora del genere è possibile solo possedendo un bagaglio tecnico e culturale di primo piano.
Non si spiegherebbe, altrimenti, un brano come la title-track, forse una delle speed-song più veloci di sempre che, per ciò, mantiene in ogni suo istante la giusta direzione. Ricordando, come approccio corretto alla questione ‘suonare in modo più estremo possibile’ (“A.T.O.M.I.C.I.D.E.”), i norvegesi Myrkskog, indimenticati autori del leggendario “Deathmachine” (2000).
La miscela alla nitroglicerina, tritolo e fulmicotone, dai cui vapori prende forma “Chaos Abomination”, è chiaro, più apparire monocorde nell’iterazione di pattern ultrarapidi e frustate sulla schiena, ma così non è. La vera bravura degli Atomicide è in questo: riuscire a frantumare la resistenza umana senza fiaccarla. Passando e ripassando il disco nel lettore, avanti e indietro, l’ascolto si mantiene fresco, pimpante. Seppure la struttura compositiva dei pezzi sia semplice e lineare, il calore con il quale Atomizer e i suoi compagni li fondono nell’unico blocco che è il platter, mantiene intatte la genuinità e l’energia di partenza.
Per chiudere, allora, basta solo un urlo: «viva il Cile!».
Daniele “dani66” D’Adamo