Recensione: Chaosmos
L’ascolto di un disco, la visione di un quadro, la lettura di un libro, sono delle attività in grado di nobilitare l’uomo, dopo che si è elevato chi ha generato queste opere d’arte, soprattutto se queste diventano poi celebri, in grado di diventare universali e magari dei classici. Alcune volte però il destino artistico decide di mettere in atto una qualche operazione bizzarra e curiosa, a tratti beffarda, come quando più dell’opera d’arte nella sua complessità diventa celebre un singolo passaggio, una frase, un dettaglio, un particolare infinitesimale, un pensiero dedotto, poche note, ecc…
A tal proposito si potrebbero fare infinti esempi in grado di abbracciare tutte le forme artistiche, ma, come esemplificazione paradigmatica, basti considerare, senza timore di smentita, il grande romanzo Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Infatti di questo bellissimo libro la trama talvolta è sconosciuta (tranne per chi l’ha letto), ma nonostante questo il celebre pensiero “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” dello spregiudicato Tancredi è universalmente noto, più del libro stesso. In questo particolare contesto potrebbe essere collocato l’ultimo album degli Origin intitolato Chaosmos in quanto in ogni singolo brano si possono ascoltare le loro specifiche caratteristiche dando la sensazione che nulla è cambiato, o semplicemente maturato o evoluto, rispetto ai loro lavori precedenti. Un disco troppo ancorato al passato che vede nel nuovo logo e nella bellissima copertina, a opera di Santiago Jaramillo, forse gli unici motivi di vera novità e interesse.
Dopo cinque anni di assenza, e con delle capacità musicali indubbie (si veda la condivisione di palchi, tra gli altri, con gli Hate Eternal, i Napalm Death, gli Arch Enemy), probabilmente potevano offrire qualcosa di più, di maggiormente ispirato e con minori aderenze, con tutte le mediazioni del caso, ai Nile.
C’è tanto Morbid Angel sound in questo platter, sulla bio si legge “Technical Death Metal”, ovvero una pericolosa definizione forse troppo abusata negli ultimi anni tra gli addetti ai lavori. Come se il livello tecnico in altri generi (in ambito metal, si intende) non fosse interessante o messo così poco in risalto (a parole).
Disponibile per Agonia Records (in Europa) e Nuclear Blast (per il Nord America e il resto del mondo), il disco è stato registrato, mixato e prodotto da Rob Rebeck (Unmerciful e Vänlade).
Chaosmos suona aspro, secco e definito, ma pur sempre colmo di malefici riverberi sottili, che danno una spinta in più nelle parti a più voci sovrapposte; a tal proposito si ascolti ascoltare la conclusiva Heat Death, che in quanto a stratificazioni sonore risulta in pieno stile Hate Eternal.
La title track esce come singolo (e conseguente videoclip) in data 12 maggio 2022 e contiene praticamente tutti gli elementi che si riveleranno portanti in quest’ultima release. Sicuramente è il brano più rappresentativo dunque, ma per chi scrive di sicuro non il più interessante.
Passaggi chitarristici in pieno stile Beyond Creation per Panoptical, qui l’axe man Paul Ryan tira fuori tutta la sua grinta (e il suo enorme talento) per partorire qualcosa di davvero interessante e soprattutto di molto personale.
Sarà questo uno dei brani più innovativi e moderni all’interno di Chaosmos, oseremmo dire il brano che vale tutto il disco. Le melodie in tremolo picking sul finale sono evocative e lasciano rilassare le membrane timpaniche, almeno fino alla successiva mitragliata.
L’intro (e tutto il brano) di Decolonizer è quanto mai di ironica lettura e a tratti di dubbio gusto perché si caratterizza con riffing simil punk con un drumming che sembra voler incattivire il tutto (senza riuscirci) con continui fill e un blast beat onnipresente. Il mid tempo finale forse è la parte più interessante di tutto la canzone, coerente e in pieno stile Origin.
Il frontman Jason Keyser è davvero in ottima forma, espressivo e incredibilmente cattivo in alcuni passaggi. Riesce a condurre l’ascoltatore in mondi ultraterreni con un semplice growl, così come in Cullscape, song velocissima che rappresenta uno dei punti più alti dell’ultimo disco targato Origin.
Nostalgia For Oblivion risulta epica e apocalittica, con degli arpeggi distorti in mid tempo iniziali.
Il basso è in prima linea nei bridge e Mike Flores si conferma un asso del proprio strumento. Il motore della band è di spicco presentando anche quel fenomeno di nome John Longstreth (Hate Eternal, Angelcorpse) alla batteria.
Ascoltare per credere Cogito, Tamen Non Sum; i lavori alla sessione ritmica sono davvero un piccolo capolavoro. Pura aggressione sonora, ma dopo vari ascolti emerge anche un senso melodico piacevole e per niente stucchevole. Certo, siamo in linea con con quanto fatto negli anni scorsi (in termini di brutalità), eppure alcune song sanno donare quel sano magone dovuto alla totale inquietudine sonora perfettamente messa in scena dai nostri.
Nulla di trascendentale, non proprio un grande disco, ma dannatamente sincero e suonato (oltre che confezionato) in maniera impeccabile; forse apprezzabile maggiormente dai “nuovi” ascoltatori, ma che lascerà un senso di incompiutezza tra chi li segue da tempo.