Recensione: Chapter II: Boom
Post-hardcore. Cioè, lo scatto evoluzionistico del genere citato che, con il passare degli anni, si è trasformato in un’entità meno aggressiva, meno brutale, concepita per esplorare più a fondo le emozioni dell’essere umano.
Melodic metalcore. Praticamente, lo stesso concetto, giacché esso è, a sua volta, l’evoluzione del metalcore primigenio, che, come appartenente alla famiglia del nu-metal, era tutt’altro che introspettivo e armonico.
Come si sa, però, un rigoroso ordinamento della musica in sezioni dai confini invalicabili è assolutamente impossibile per l’infinita varietà di stili che ciascun gruppo infonde nel proprio lavoro. Allora, per i Curses, che melodic metalcore sia! E, come per il debut-album, “Chapter I: Introspect” (2017), anche per il secondo pargolo, “Chapter II: Boom”, oggetto della presente disanima.
E, giusto, per dimostrare sin da subito quanto sopra descritto, il disco parte con un incipit di ‘Almost Heaven’ dolce e morbido, trasognate; un incipit che mostra il carattere della band, volto a osservare la realtà con occhio attento ai sentimenti, alle illusioni, ai sogni. Poi, la canzone parte con il suo ritmo rutilante, avvolto strettamente dalle tastiere e , soprattutto, dai meravigliosi cori che caratterizzano questa particolare foggia musicale. E, a tal proposito, occorre evidenziare che le linee vocali sono affidate a due cantanti, per dividere nettamente le harsh vocals, che a tratti divengono growling, dalla voce pulita. Un particolare che sa di ossimoro, guardando le linee vocali stesse a mò di unica entità vivente.
Scorrendo i brani, i Curses riescono a travolgere l’ascoltatore con naturalezza e semplicità, portandolo nel loro mondo. Un mondo – immaginario pianeta ove regnano sentimenti vivi e pulsanti fra i quali nostalgia e melanconia – le cui peculiarità geografiche sono i sogni, le stelle cadenti, il cosmo tutto. Un qualcosa, cioè, che è insito nella vita di ciascun essere umano ma che spesso viene travolto e messo da parte dalla moderna superficialità della vita medesima. E invece no: lo scorrere del tempo, inesorabile, che detta i passaggi di ciascuna persona nel suo percorso dalla nascita alla morte, va affrontato con piglio deciso per gonfiare di lacrime questi singulti, basi fondamentali dell’essenza dell’anima.
I Nostri, benché siano una band relativamente giovane, essendosi formata nel 2014, hanno individuato perfettamente questo famigerato mal di vivere. Lo mostrano le canzoni, perennemente sottomesse all’antitetico cozzo fra potenza e melodiosità. Non mancano, difatti, episodi dalla struttura dura, massiccia, possente, come per esempio ‘Toska’ e ‘Wetiko’ – massacrate dai micidiali stop’n’go tipici del *-core; struttura sulla quale le finiture raffigurano ipotetici stati d’animo raccolti con la testa che guarda in basso, a mò di accettazione del dolore che permea sino all’osso l’esistenza (‘Ascent’, ‘Follow the Fire’).
L’esito di questa antitesi è perfettamente coerente con ciò che esprimono gli act di questa specie. Si muovono le membra quando il ritmo affonda i colpi (‘Amethyst’), si trascende la realtà quando lo stesso ritmo si fa rarefatto sì da consentire il passaggio della coscienza nel Regno del Cuore (‘Breathe’). Tutte operazioni istintive, certamente provate a tavolino giacché “Chapter II: Boom” è un LP totalmente professionale in tutto il suo iter realizzativo.
Le tracce sono tutte di buon livello sia artistico, sia realizzativo. La formazione statunitense ha in mano un rilevante talento compositivo, in grado di assicurare la coesione con il proprio stile, il proprio marchio. Ma, oltre a ciò, sono presenti alcun chorus davvero eccellenti per orecchiabilità, come in ‘The Door in the Wall’ e ‘Breathe’.
“Chapter II: Boom” funziona in tutto e per tutto, insomma, rivelandosi adatto per essere metabolizzato da ogni appassionato di metal, indipendente dalle personali preferenze. Trattasi di un full-length completo in ogni sua parte, sempre interessante, sempre accattivante, sempre profondo, sempre passionale. Forse non c’è l’hit devastante ma, in fondo, perché dovrebbe esserci quando la qualità del platter è già così alta nel suo complesso?
Daniele “dani66” D’Adamo