Recensione: Chase The Dragon

Di Eric Nicodemo - 20 Agosto 2013 - 15:48
Chase The Dragon
Band: Magnum
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 1982
Nazione:
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86

“Chase The Dragon” segna l’inizio del periodo d’oro dei maestri indiscussi del pomp rock: i Magnum.
Dopo due anni di ritardo, i nostri riescono a dare alle stampe il sequel di “Magnum II” nel marzo del 1982.
L’album (supervisionato da Jeff Glixman (Kansas) e mixato ad Atlanta) non rappresenta solo uno dei picchi della discografia del gruppo ma è l’anello di congiunzione tra il sound dei primi lavori e l’acclamato “On A Storytellers’ Night”.
Inoltre, “Chase The Dragon” sancisce l’entrata ufficiale del tastierista Mark Stanway che ricoprirà un ruolo chiave nell’evoluzione del Magnum sound (in realtà Stanway era già in formazione durante il Reading festival del 1980).

L’immaginario fantastico scaturisce sin dal raffinato artwork di Rodney Metthews e “Soldier Of The Line” ci dà il benvenuto in questo mondo da sogno: le voci corali imponenti della track si stagliano in tutta la loro lirica epicità richiamando alla mente i Queen più sinfonici e altisonanti. La canzone assume drammaticità con l’aumentare della velocità d’esecuzione e la voce enfatica di Bob Catley doma la fuga con destrezza disarmante, adattando il registro al contesto strumentale.    
La melodia solenne di “Soldier Of The Line” contribuisce a ricreare un’ ambientazione austera, tetra e cruda, segnata da morte e dolore (“… You’re in a in murderous playground war games on castle wall… No movement in the fields, the crows will be fed…”), una testimonianza dell’insensata desolazione che porta la guerra.
Il nostro viaggio nel reame della “fantasia” (e nell’animo umano) continua con due capisaldi live come “The Spirit” e “Sacred Hour”.
“The Spirit” sa ammaliare con il refrain struggente di Catley che carica di tensione emotiva i versi della canzone: il chorus racchiude tutte le capacità recitative che Bob sa esprimere, attore in grado di interpretare le strofe secondo un registro di gusto teatrale e immaginifico. La forza della musica è suggellata dalle parole dei versi pregni di messaggi nascosti, non sempre di facile lettura: infatti, è difficile capire chi sia lo spirito del testo, che potrebbe coincidere con l’anima o personificare il libero arbitrio, la ratio umana o la natura il cui uso sbagliato può condurre alla rovina (“… To the spirit that guides you, follow it through to the spirit inside you, always be true… You know you’ll despair… If the spirit inside you is used without care…”).

Il malinconico pianoforte (prima lento, poi, più deciso) di “Sacred Hour” viene assistito dalle tastiere evocative di Stanway: lo schema si ripete ma con ruoli invertiti (tastiere in rilievo e scale del piano in sottofondo), fino alla fusione delle parti strumentali; sulle note della triste melodia, Catley plasma un’ atmosfera surreale e romantica, conferendo alla voce un intonazione ovattata (più energica poco prima dell’innesto della sei corde). I backing fragorosi rispecchiano l’aumento del ritmo d’esecuzione; ad un tratto, una breve pausa spezza il groove e la corsa riprende nel ritornello, sfociando in uno “stridulo” pattern di chitarra con divagazioni prog.     
E’ un peccato che tra queste tre gemme non molti si siano accorti del secondo brano della tracklist, “On The Edge Of The World”, un vero gioiello che incorpora un’ armonia avvolgente resa ancora più affettiva ed energica dalla trama dei vibrati posti in chiusura della canzone. L’apertura della song è affidata a brevi distorsioni interrotte da veloci synth, per poi riprendere con un ritmo “galoppante” che guida l’ascoltatore al repeat e lascia spazio alla suddetta escursione strumentale, un assolo efficace dalle tonalità espressive, un inserto di stile e gusto compositivo.   

La forza emotiva del A-side del disco è tale da far risultare (quasi) meno appagante la seconda facciata del disco: si ritorna al rock sanguigno vecchia maniera con “Walking The Straight Line”, meno fantasioso (in tutti sensi!) e innovativo se paragonato alle tracce d’apertura. L’ossatura della canzone è essenzialmente un torrido “hard blues” con ruvidi refrain e un ritornello giocato sul botta e risposta backing vox- main vox, il tutto arricchito dal pregevole assolo rallentato a ¾ della canzone. Anche il tema di “Walking The Straight Line” è un soggetto ricorrente nelle canzoni rock ovvero l’amore, ma in questo caso l’argomento viene trattato con poesia e tatto, spiegando che la strada dei sentimenti è un percorso difficile da definire (“… There’s no way to tell…”), privo di trucchi (“… No magic potion…”) e incerto, che può portare a gioie (“… Could be like heaven…”) e dolori (“… Might be like hell, baby…”).
“We All Play The Game” ci riporta a una dimensione intimista e soffusa, grazie ai synt d’apertura di matrice progressive, caratteristica ricorrente nei primi lavori della band. L’interpretazione di Catley è sempre toccante mentre la chitarra acustica scandisce il tempo; il chorus nasce dal lead vocal in solitario e si sviluppa come un dolce inframezzo ricamato su tonalità alte e delicate. In chiusura, la ricomparsa del piano e dell’acustica e gli onnipresenti synth dal flavour romantico e seventies.
Una canzone criptica, esistenzialista, il cui tema centrale è la ricerca di se stessi, quasi un’ anabasi nel proprio io, per trovare risposte che spesso si celano solo all’interno del proprio cuore (“… And you travel far though the answer’s in your heart…”).  

“The Teacher” è un viaggio alla scoperta della verità (“… I bring the truth with no illusion…”) dalla ritmica incalzante, soffermandosi solo in corrispondenza del chorus; l’atmosfera rallenta in un mid tempo guidato dalla voce velata del frontman, l’occasione ideale per Clarkin di introdurre una sorta di jam session, dal dinamismo strumentale cangevole, un espediente che dona varietà e spessore alla canzone (rispetto ad un ritornello breve e non proprio indimenticabile).          
La poetica dei Magnum è, ancora una volta, racchiusa nelle note del piano struggente di “The Lights Burned Out”, in sinergia con l’incedere della chitarra; il quadro compositivo è completato alla perfezione dall’ugola di Catley che si irrobustisce sublimando emozioni indescrivibili, con i fedeli support di chitarra e coro; ciò che ne deriva è un collettivo drammatico e disperato come l’amore infranto (“… The lights burned out…”) di cui è vittima il protagonista di questa intensa ballad (“… What am I going to do about you, baby?… What am I going to do without you now?…”).

“Chase The Dragon” riscosse un ottimo successo di critica e pubblico tanto che si posizionò  diciassettesimo nelle charts inglesi.
Tuttavia, non tutto andò per il verso giusto: infatti, del concerto tenutosi a Nashville (Tennessee) vennero pubblicate solo due tracce, incluse in un EP contenente le nuove registrazioni “Back To Earth” e “Hold Back Your Love”; il live verrà dato alle stampe solo nel 1989 dalla Receiver Records, con il titolo di “Invasion Live”.

Probabilmente i Magnum non sono mai riusciti a imporsi nel panorama del rock mainstream degli anni ottanta, fallendo nel tentativo di strappare record di vendite ma sono stati capaci di compiere un impresa ben più ardua: influenzare la scena musicale degli anni ’90 ad ampio raggio, toccando generi distinti e artisti di molteplici estrazioni.

E non stiamo solo parlando di Ten o Edguy… chiedete delucidazioni a Stian Aarstad dei Dimmu Borgir!   

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