Recensione: Checkmate The King
Quanto può essere determinante la qualità dei suoni…
Un disco di discreta levatura può, in un attimo, incrementare il proprio appeal, guadagnando in piacere d’ascolto.
Gli strumenti hanno migliore resa, le atmosfere appaiono più profonde ed accattivanti, i cori spiccano ed incidono.
Di contro, quando la produzione è deficitaria, gli sforzi – pur se encomiabili – divengono irrimediabilmente zavorrati da un che di “amatoriale” che ne vanifica gli esiti, smussandone parecchio le concrete possibilità di ottenere successo.
Un preambolo un po’ particolare per definire quello che, a conti fatti, appare essere il più grosso deficit in carico al nuovo album dei romani Mindcrime, band hard-prog – che sin dal nome tradisce un certo ascendente di marca Queensrÿche – arrivata con “Checkmate The King” alla pubblicazione del debutto discografico. A dispetto, sia posto in evidenza, di un’esperienza che non è certo quella degli imberbi esordienti alle prime armi.
Un certo buon gusto per le melodie mai troppo banali o scontate, estro strumentale senza dubbio livellato verso l’alto e doti vocali del singer Bruno Baudo più che buone. Valori insomma, che non sono per nulla quelli trascurabili di chi si presenta al giudizio dell’audience con scarsità di mezzi o pochezza d’idee.
Epperò che tragedia questi suoni: piatti, scialbi, privi di carattere, insipidi, aridi…
Intendiamoci, il disco è ascoltabile e non è da porre a paragone con alcune produzioni da “cantina sociale” ascoltate in qualche demo da capelli rizzati: tuttavia, in modo del tutto onesto, non possiamo non notare come il profilo di un album dalla sostanza “più che buona” come questa opera prima, risulti pesantemente penalizzato nelle proprie chance di ascolto da un taglio sonoro privo di fascino e mordente.
Un peccato: tracce quali “Spell You’re Under”, “We Were Dreaming” e “You Always Believed In Me”, eleganti, ben costruite e ricche di passaggi a cavallo tra heavy anni ottanta, prog e hard rock – che, in effetti, non tardano ad occhieggiare proprio ai Ryches di “Rage For Order” e “Operation Midcrime” – risultano dimezzate nell’impatto dalla piattezza di una registrazione troppo secca, senza alcuna profondità ed enfasi.
Poco importa che alcuni ritornelli e certi cori siano a volte troppo ripetuti (è il caso, ad esempio, delle pur valide “Once Upon a Day” e “War In The Name Of Peace”) e che alcune formule di stampo class metal abbiano un pizzico di polvere del tempo addosso: peccatucci veniali che lasciano letteralmente il tempo che trovano.
La band ci sa fare ed i pezzi, spesso, riescono a tirar fuori dal cilindro qualche soluzione fascinosa, un paio di accordi azzeccati ed un po’ di assolo dal piglio arrembante e di sicuro prestigio tecnico.
Senza dire di un piano concettuale piuttosto colto e raffinato che, pur non conducendo “Checkmate The King” nell’ambito dei concept veri e propri, riesce in ogni caso a donare una dimensione fascinosa ed evoluta all’intera costruzione dei testi.
Un lavoro, per farla breve, che avrebbe, in effetti, un certo numero di buone qualità per farsi notare ed ottenere un numero sufficiente di consensi.
Vero disappunto quindi, per la scarsa cura nell’incisione delle tracce e per la banalità della resa finale: un buon cinquanta per cento perso per strada in termini di puro, limpido e semplice potenziale d’ascolto.
Con le decine di album fuori ogni mese per le più disparate label e case di promozione, potersi presentare con un disco che “suona bene” è un aspetto che non andrebbe davvero mai sottovalutato…