Recensione: Children of the sound
Chi conosce i Kaipa sa benissimo cosa aspettarsi da un nuovo loro album. Da “Notes from the past”, album del loro ritorno nel 2002, gli svedesi hanno messo insieme ben otto uscite discografiche di studio (nessuna raccolta, nessun live), quasi sempre con cadenza biennale. E non si sono mai distanziati granché dalle loro linee guida. O meglio, non l’hanno fatto per niente.
I begli intrecci vocali tra i cantanti, le atmosfere prog sospese e sognatrici, le melodie semplici combinate in strutture complesse da un quarto d’ora. I conseguenti scivoloni qua e là, dovuti alla voglia di strafare o agli eccessi di zucchero nella musica, che finisce per diventare melensa.
No, decisamente poche band sanno ripetersi con la regolarità e la ritmica dei Kaipa, che davvero potrebbero produrre dischi in serie, tutti discreti.
Che dire dunque del nuovo “Children of the sound”, al di là di un nostro ritardo di due mesi? Poco o niente? A livello musicale, sicuro. Troverete tutto quello che avete già sentito nelle puntate precedenti. Però va detto che questo nuovo album non equilibra pregi e difetti, anzi, i secondi in questa sede sembrano prevalere. Le strutture interminabili messe assieme da Lundin e soci, questa volta sembrano particolarmente scollegate.
Frequentissimi cambi di ritmo che, nelle tracce dell’album, non portano da nessuna parte e riescono solo ad intorbidire l’attenzione. Anche le melodie sembrano prive di ispirazione, più scontate del solito – laddove tra prevedibile e scontato, data la band, passa una differenza sostanziale. Non c’è magia, nemmeno a tratti.
Difficile valutare i perché, anzi, è possibile che l’aver sentito tanti album simili crei una sorta di rigetto. Può anche essere, data la similitudine dei vari album, che molti non trovino fluttuazioni di qualità tra questo “Children of the sound” e gli altri lavori della band. D’altronde, lo testimonia il fatto che anche “Angling feelings” ha ricevuto un giudizio basso sulla nostra pagina, pur non scostandosi particolarmente da quanto sentito altrove. Sicché il giudizio in calce non può che essere soggettivo, e i consigli sempre gli stessi.
Per chi conosce questa band, il nostro giudizio è del tutto ininfluente, sa già cosa lo aspetta. A chi non li ha mai sentiti, il consiglio è sempre quello. Recuperare i tre dischi degli anni ’70, quelli con Roine Stolt, “Solo” in primis. E poi pescare “Keyholder”, il migliore tra gli album dei nuovi Kaipa. Se l’ascolto di “Keyholder” sortisce un buon effetto, potete passare a “Mind revolutions”, “In the wake of evolution” e via dicendo.