Recensione: Chitin

Di Daniele D'Adamo - 15 Giugno 2024 - 0:00

Terzo full-length per i Defect Designer, intitolato semplicemente “Chitin”. A tal proposito, non è dato di sapere, dalle note biografiche, perché sia stato scelto il nome della sostanza, chitina, che possiede l’insolita proprietà di accelerare la guarigione delle ferite negli esseri umani. Ma tant’è.

Definire death metal la proposta del duo russo/svedese è un’approssimazione comunque sensata, giacché la musica dei Nostri è talmente strana da risultare praticamente unica nel suo genere. Però, nel suo insieme, per via di dettami specifici in ogni caso presenti con insistenza, “Chitin” può accumunare a sé il genere della morte.

Basti ascoltare, per esempio, la closing-track ‘Orgone Accumulator’ per trovarsi davanti a un cantato in growling, profondo, dai toni assi stentorei, mischiato come dalle altre parti con inserimenti vocali della più disparata specie, comprese le clean vocals (‘Shine Shine’). Con Dmitry Sukhinin impegnato allo spasmo a cucire una spessa tela di riff piuttosto complicati, sommersa da innumerevoli cuciture soliste tali da rendere il sound inclinato verso le frequenze più alte (‘To Ziggurat’). La mobilità degli accordi e la loro tendenza a non spaccare i timpani rende il suono non particolarmente potente. Anzi. Pare che nella testa dei Nostri l’idea primigenia sia quella di riprodurre qualcosa di rapido, veloce, come raffiche di vento che scuotono l’etere; non ruotando, se non per poco, la manopola dei watt.

Martin Storm-Olsen, oltre che a coadiuvare Sukhinin alla voce, svolge il suo compito al basso in maniera ortodossa, mentre il ritmo della drum-machine cambia continuamente sino ad arrivare alla furia del blast-beats. Una sezione ritmica solida e… convenzionale, che svolge il proprio compito senza voli pindarici.

Presenti, ma non era da stupirsene, numerosi inserimenti ambient, atti a delineare il mood dell’LP, fortemente lisergico. Tutto quanto si ascolta, infatti, induce a uno stato di allucinazione in cui scorrono immagini distorte, multicolori, indicanti una componente si può dire psicotropa che, in soldoni, rappresenta la caratteristica più evidente dell’LP stesso.

Seguendo il discorso sullo stile, il platter è un monumento alla dissonanza, avendo espulso da esso la melodia. Non per ‘We Prescribe’, violentissimo – questa volta sì – attacco sonoro su cui campeggia una specie di refrain clamorosamente orecchiabile e piacevolissimo per l’orecchio (sic!). In mezzo a tanta cacofonia, un’imprevedibile isola armonica ove far riposare la mente, piegata dall’incedere dei brani.

Questi totalmente vari. Vari all’interno di essi e vari nell’insieme che compone il disco. Si può tranquillamente che lì dentro ci sia di tutto. Assieme a scatenamenti di death furibondo, e di questo si è già detto, abbondano inserti vocali e musicali dai forti sapori ironici se non sardonici (‘Nu, Pogodi!’) tesi, a parere di chi scrive, a frammentare la tensione e rendere meno serio l’approccio all’album (‘Gaudy Colors from Your Plastic Bag’).

Il tutto, per un inestricabile pot-pourri di elementi sia aderenti alla filosofia fondativa del death, sia di divagazioni le più disparate possibili. Materializzando la chimera di un ascolto lineare e, si può dire, sensato dell’opera. Anche dopo molti passaggi, “Chitin” non riesce a formare nella mente un proprio spazio, giacché il ridetto pot-pourri ha il volume davvero troppo grande, contenendo così un’abbuffata, fra l’altro, di generi e sottogeneri spuri.

Chiudendo il discorso sullo stile, appare sensato tirare in ballo il progressive death metal. Troppo progressive, si direbbe, poiché la voglia di spaziare a 360° nei meandri della musica ha portato a un lavoro privo della necessaria coesione per poter essere consistente e quindi masticabile con difficoltà.

Forse i Defect Designer sono troppo avanti nel tempo e quindi attualmente risultano complicati da comprendersi in tutta la loro produzione artistica. Oppure sono parecchio confusionari e privi di una strada maestra da percorrere, fattispecie in cui si pone lo scriba.

Ai posteri, comunque, l’ardua sentenza.

Daniele “dani66” D’Adamo

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