Recensione: Chronicles of Lunacy
Guidati del batterista nonché polistrumentista Lille Gruber, figlio del defunto membro co-fondatore Wolfgang Teske, i Defeated Sanity tagliano il traguardo del settimo full-length in carriera, “Chronicles of Lunacy“.
Nati nel 1993 i Nostri, con il passare del tempo, si sono via via evoluti giungendo a una forma adulta di progressive death metal. Un sottogenere piuttosto in voga, ultimamente, ma che raramente ha dato seguito al nome con la musica. Circostanza che non accade nel caso in ispecie.
I Defeated Sanity, difatti, propongono death metal, questo sì, tuttavia contaminato da tipologie musicale spurie come per esempio il jazz. Non solo, la forma-canzone viene costantemente stravolta dare il motivo ai musicisti di esprimersi come meglio credono, arrivando a pensare che, forse, ci sia addirittura un pizzico d’improvvisazione.
Il continuo inserimento di segmenti e/o sovrapposizioni che nulla c’entrano con il metallo della morte, se da una parte conduce a una totale imprevedibilità del contenuto dei brani, dall’altra può creare una certa confusione se non ci si concentra al massimo per trovare il bandolo della matassa. Operazione, questa, relativamente difficile per via dell’indiscutibile preparazione tecnica dei protagonisti la quale, di conseguenza, consente loro di fare un po’ ciò che vogliono, anche sopra le righe.
Che si tratti di death metal è stato appurato. La vicinanza al brutal è minima e a volte si sfiorano scambiandosi le note. Quindi nemmeno un alito di melodia. Anzi, a ben vedere “Chronicles of Lunacy” è un incredibile contenitore di ardite dissonanze nonché di stridenti disarmonie, che non concede nulla al facile ascolto.
Il death che, a questo punto, si può idealizzare come una matrice di base sulla quale disegnare le coraggiose divagazioni dalla via Maestra, è in ogni caso aggressivo, possente, massiccio.
L’ugola di Josh Welshman deve sanguinare parecchio, per ottenere un growling accompagnato appena appena da harsh vocals. Growling inintelligibile, che tuttavia riesce a legare il tutto, conducendo per mano i suoi compagni che, altrimenti, si perderebbero per strada.
A tal proposito occorre nuovamente manifestare la perizia tecnica del mostruoso chitarrista Vaughn Stoffey. In grado, da solo, di spaziare a 360° in tutto ciò che è death metal e in tutto ciò che non lo è. Creando un tappeto dalle trame finissime – in virtù di riff arzigogolati all’infinito, eterogenee, ricche di spunti evoluzionistici senza perdere ciò che insegna la natura primigenia del death medesimo. Impressionante, poi, il lavoro al basso di Jacob Schmidt, che avvolge le tracce come un serpente costrittore ma anche le amplia come se fosse una seconda ascia da guerra. Guerra in questo caso scatenata dall’assurdo drumming di Gruber, capace di scatenare blast-beats da follia, seppure il sound del suo rullante suoni leggero come il tappo di un fustino di detersivo per lavatrice.
È evidente, a questo punto, che la sensazione che si percepisce è quella di un insieme di… canzoni sin troppo progressive, tali da risultare indigeste anche ai chi ama lo stridere continuo degli strumenti musicali. Invero non si sa come, il combo tedesco è riuscito a mantenere il proprio stile nella composizione delle singole song, evitando di realizzare otto episodi che vanno in direzione diversa se non opposta uno all’altro. Il che non è poco, date le tonnellate di carne che cuociono sul braciere.
Benché esista questa capacità di tenere assieme il tutto, il prolungato ascolto dell’LP a un certo punto provoca la temuta noia per via di una freddezza di fondo che suggerisce un accostamento troppo astruso al death metal.
Va bene trascendere la norma ma, come si dice: «Il troppo stroppia».
Daniele “dani66” D’Adamo