Recensione: Circus Nebula
Non è un segreto che tutte le band a partire dagli Eighties abbiano attinto a piene mani dal succulento calderone del rock settantiano. Un passaggio che, con il tempo, è diventato obbligatorio, decretando l’immortalità di quei suoni. I Circus Nebula, band fondata nel 1988 a Forlì, hanno incorporato questi preziosi elementi per dare alla luce uno stile a metà strada tra hard’n’roll ed heavy rock.
Il combo consta ancora del nucleo originario, formato dal chitarrista Alex Celli (ex Buttered Bacon Biscuits), dal cantante Marco Bonavita (Amphetamine e Nasty Tendency) e dal batterista Bobby Joker (Diatriba). I tre sono stati coadiuvati al basso prima da Frank Leone (Nasty Tendency, Micheal Vescera) poi, a partire dal 2017, da Luca Agostini. Alle tastiere troviamo Michele Gavelli, proveniente dai Blastema.
Con questa line up, i Circus Nebula pubblicano, dopo una lunga gavetta, l’omonimo album d’esordio, aperto dall’accoppiata “Hypnos (intro)” – “Sex Garden”: l’opener non indugia e sfoga riff lenti e minacciosi per un effetto plumbeo. Voce filtrata nel mezzo e breve accelerazione danno tono al pezzo.
Un riff concentrico dà il benvenuto in “Ectoplasm”. Il coro viene sviluppato in maniera non dissimile dal pezzo di apertura. Il marchio della NWOBHM più dura si sente distintamente dal basso pulsante mentre la cavalcata finale dichiara amore eterno per l’hard rock.
“Here Came The Medicine Man” ha un andamento polveroso, oscuro, dai lick sabbathiani. Rispetto ai precedenti pezzi, la spinta creativa è maggiore: l’intreccio sonoro risulta più contorto, come testimoniano le dissonanze dei vibrati, i cambi di tempo e le tastiere. Queste ultime rendono il suono più ricco e, per così dire, “malato”, facendo propri gli umori acidi degli anni Sessanta e le pulsioni progressive di “Sabbath Bloody Sabbath”.
Entra in scena “Rollin’ Thunder (Raw’N’Roll)” e cambiano le regole del gioco: il registro si sposta su un godibilissimo boogie rock sanguigno, sospinto dall’aria frizzante del pianoforte e trainato dalla voce calda e sudata di Marco Bonavita. Un pezzo molto gradevole che forse non brilla di originalità ma movimenta con vivace allegria il platter.
Ancora un cambiamento d’atmosfera e “Vacuum Dreamer” propone la ballad di rito, introdotta dall’acustica e sostenuta dagli alti cori. Gli stilemi del genere vengono pienamente rispettati: la chitarra si apre in assoli malinconici e il piano fa timidamente capolino dietro le note della sei corde.
Convince di più “Welcome To The Circus Nebula” che non è il solito pezzo heavy: il ringhio delle chitarre, lente e rutilanti, si mescola alle tastiere creando un mood ipnotico. Il coro si alleggerisce dal rombo delle sei corde e acquista un sapore melodico non ingombrante. Questa amalgama, dal gusto stoner, dona estro e personalità al brano, evitando di soffermarsi sul riff portante, il quale diviene, invece, la base su cui strutturare l’intero pezzo. Ben fatto!
“2 Loud 4 The Crowd” alterna rifferema veloce e affilato con un ritornello da stadio. Il pre-chorus richiama la tipica ritmica dell’ala britannica rappresentata da Tokyo Blade e Avenger. Questo sentore di heavy anni Ottanta e una buona dose di verve consegna all’ascoltatore un brano compatto, completamente votato al mosh pit.
“Electric Twilight” si divincola attraverso riff concentrici per poi assumere un andamento più rilassato: le tastiere con il loro fascino retrò emergono e la canzone assume i connotati di una ballad. L’apertura e un buon refrain danno maggior carattere ad “Electric Twilight” rispetto a “Vacuum Dreamer”, sebbene rimane l’impressione che i Circus Nebula si destreggino meglio nei pezzi veloci e diano il massimo nei brani atipici.
Ed “Head-Down” è qui a dimostrarlo con la sua carica tutta AC/DC e accordi fumanti: infatti, l’anima del brano è quella di un hard blues ad alto voltaggio secondo le coordinate degli Australiani suddetti. Certo, l’originalità non è ai massimi livelli ma la canzone rimane trascinante quanto basta per convincere, senza l’aggiunta di troppi fronzoli e orpelli.
Altrettanto scatenata è l’inno “Mr. Pennywise”, che fa propria la tradizione del boogie rock da “Johnny B. Goode”, del compianto Chuck Berry, fino ai Nazareth di “Razamanaz” .
In chiusura un vecchio cavallo di battaglia della band ovvero “Spleen”, che si discosta dalla precedente proposta per registro e pesantezza sonora: qui ci troviamo di fronte a un ibrido tra NWOBHM, l’Us power metal e rovente speed, con un ottimo lavoro alle pelli dall’accento thrashggiante. Tuttavia, il vero valore aggiunto alla song è lo splendido bridge finale: un intreccio solistico d’atmosfera in cui la chitarra dipinge note malinconiche, con un sapiente dosaggio delle distorsioni. Basta questa parte ad elevare “Spleen” e a donarle una propria anima.
Tra “Spleen” è le altre canzoni c’è un solco stilistisco piuttosto evidente che mette in luce i punti deboli del platter: innazitutto, manca in diversi brani (pur piacevoli) un marchio veramente distintivo e si percepisce una certa riluttanza a battere nuove strade, volendo rimanere in genere arroccati su capisaldi del rock (alcuni ritornelli cadenzati frenano la forza d’impatto e appiattiscono la carica melodica). Quando i Nostri cercano, invece, nuove vie, il risultato è convincente, come testimonia “Welcome To The Circus Nebula”. Personalmente, avrei preferito un songwriting che osa di più, che gioca più sulla commistione tra generi per coniare un sound proprio e trasversale: insomma, più “Spleen” e meno “Mr. Pennywise”.
Detto questo, “Circus Nebula” possiede tutte le qualità di un disco hard’n’heavy godibile e immediato, che rivela spunti di originalità, i quali, se sviluppati in futuro, potranno dimostrare il vero valore di questo gruppo.
Eric Nicodemo