Recensione: City Burials
Che la pausa di riflessione dei Katatonia non sarebbe durata a lungo un po’ me lo sentivo. Non so perché, sarà sesto senso e ad ogni modo i motivi erano emersi abbastanza chiaramente nel corso del tempo. La pausa era più un ‘ricaricare le pile’ più che uno stop a tempo indeterminato. E infatti il quintetto è tornato, con “City Burials” dopo soli quattro anni. E quattro anni sono lo stesso lasso di tempo che aveva separato l’ultimo, lussuosissimo, “The Fall of Hearts” dal precedente “Dead End Kings“. In questi quattro anni i nostri si sono comunque dati da fare (fronte Bloodbath in primis).
Ed eccoci qui con questo nuovo opus, la cui analisi non può che partire dalla più logica delle basi, ovvero che i Katatonia sono una band unica. C’è poco da fare, nessuno suona come loro e loro sono sempre stati marcati dal loro tipico ‘sound alla Katatonia‘. È però giusto sottolineare che “Fall of Hearts” è stato un disco diverso dai precedenti: più dilatato, con più tastiere e meno rock/metal duro, quello che bene o male aveva fatto da trait d’union a tutti i dischi da “Tonight’s decision” a “Dead End Kings”. Eppure anche qui le atmosfere erano al 100% katatoniche. E dopotutto la voce di Jonas Renkse è un marchio di fabbrica, sicché a una certa vien da pensare che gli svedesi resterebbero riconoscibili anche se si mettessero a far reggae (anche perché reggae depresso e melodrammatico ancora non s’è sentito).
La domanda spontanea ora è se “City Burials” intenda seguire le vie indicate dal predecessore, imboccarne delle nuove oppure semplicemente tornare sui suoi passi.
C’è da dire che uno dei due singoli promozionali, “Lacquer”, sembrava riallacciarsi piuttosto bene a quanto fatto quattro anni or sono, con una virata ancora più decisa verso certo minimalismo. Anche il primo ascolto del platter sembra indicare questa sensazione, se non altro perché appena terminato l’album (almeno per chi scrive) cresce inarrestabile la voglia di risentire “Fall of hearts”.
E in effetti, certi episodi di “City Burials” lo ricordano piuttosto da vicino. Oltre a “Lacquer” è impossibile non menzionare l’ottima traccia conclusiva “Untrodden”, nel quale va però segnalato un articolato e prolungato (in termini katatonici) assolo di chitarra. Risulta impossibile non menzionare “Vanishers”, che con le sue tastiere, ora minimali, ora onnipresenti e l’ottimo ritornello impreziosito da linea vocale femminile.
S’è parlato di chitarra, e in effetti le chitarre sono presenti e tengono a farsi sentire, soprattutto per certi miniassoli che dagli svedesi non ci aspetteremo, e men che mai ci aspetteremo il riff quasi progressive che apre “Rein”.
Ma non è tutto. Ci sono anche i pezzi belli tirati e un po’ più vecchia scuola, come “Behind the blood” (l’abbiamo già sentita come secondo, azzeccatissimo singolo), o l’ottima “The Winter of our Passing”. Ci sono infine i brani in cui queste chitarre e tastiere si completano a vicenda, su tutti un pezzo favoloso come “City glaciers”, ma anche la successiva e meno immediata “Flicker” o la opener “Heart set to divide”.
Che dire dunque? I Katatonia seguono quanto fatto con “Fall of hearts”? Questo è fuori da ogni discussione. Quel che cambia sembra essere il modo.
“City burials” non è infatti un album molto compatto. Anzi, è forse il meno compatto fatto da Nyström & co., essendo segnato da cambi di ritmo e d’atmosfera piuttosto frequenti. Questa è una cosa che in un primo momento può disorientare, perché l’aspettativa è sempre quella di trovarci innanzi una band che è sempre stata molto omogenea a livello compositivo (almeno all’interno delle singole canzoni).
In questo caso non è così e in nostro aiuto giungono due elementi. Il primo è la brevità ritrovata dei singoli brani e, di conseguenza, di tutto l’album, pari a 45 minuti scarsi. In secondo luogo, dopo un po’ ci si ritrova a rendersi conto che tutte le melodie di questo platter sono veramente ottime. Non è che siano tutte immediate e immagazzinabili in un paio di ascolti come accadeva ai tempi di “Viva emptiness” (per dire), ma si fanno lentamente strada nella mente e dopo un po’ non se ne vanno più – ‘And it’s rather than irrelevant’.
“City Burials” è, in definitiva un ottimo album, che magari non competerà coi grandi classici, lontani e recenti, del quintetto svedese, ma senza dubbi ci consegna i Katatonia in un ottimo stato di forma. Bentornati.