Recensione: Clearwater
Prima dei The Answer, dei Treatment e dei Wolfmother, ottimi ad amati esponenti dell’hard rock di matrice blues-settantiana, qui, da queste parti, noi avevamo già i Bullfrog.
Band veronese mai troppo posta in evidenza o assurta agli onori meritati, quella di Silvano Zago e dei fratelli Dalla Riva è una realtà ormai consolidata della scena musicale italiana. Attivo sin dal 1993, anno ufficiale di fondazione, il terzetto veneto si è da sempre contraddistinto per la fedele aderenza ad un canone stilistico privo di compromessi e strenuamente devoto all’hard rock bluesy d’evidente ispirazione anglo-statunitense, figlio diretto delle suggestioni di band storiche quali Free, Bad Company, Grand Funk Railroad, Mountain, ZZ Top, Deep Purple e Led Zeppelin.
Materiale felicemente scritto, suonato e prodotto con quel tipico sapore vintage che, quando dosato con perizia, non fa altro che addizionare una buona dose di innato fascino a trame di certo non innovative nella forma, quanto, in ugual misura, sempre piacevolissime da ascoltare.
Come da tradizione e canovaccio, anche il nuovo album del gruppo tricolore mantiene alto il vessillo del blues rock di classe, inserendosi perfettamente in scia del predecessore “Beggars & Losers”, vecchio già di cinque anni.
Brani dall’atmosfera torrida dunque, che rinvigoriscono, di quando in quando, emozioni Zeppeliniane con l’opener “No Salvation”, per poi svariare in territori cari a Free, Glenn Hughes e Grand Funk Railroad nelle cadenzate “Too Bad For Love”, “South Of The Border” e “Isolation” (quest’ultima un autentico gioiellino di reminiscenze seventies).
Irresistibili poi, i ritmi ciondolanti della ultra-bluesy “Slow Trucker”, eseguita da Della Riva in duetto con Nicolò Carozzi dei Black Mama in un gradito omaggio agli ZZ Top d’annata..
ZZ Top che emergono pure dalla successiva “Clearwater”, title track e pezzo migliore del cd (sontuosa la comparsata di Jimi Barbiani e della sua slide guitar), utile nel rendere concreta l’esemplare maestria del terzetto nel ricreare atmosfere dall’accattivante gusto retrò.
Episodi che immaginiamo perfetti per una performance live, dimensione che, più d’ogni altra, sembra appartenere nel profondo al combo scaligero
C’è spazio pure per un po’ di Deep Purple e Rainbow nella ritmata “Monster” e per trascinanti atmosfere sudiste in occasione di “Long Time Boogie”, brano che non avrebbe sfigurato nel songbook di Lynyrd Skynyrd e Gov’t Mule.
Il finale soffuso di “Better Days”, porta a compimento una quarta fatica che ratifica nuovamente la bontà – stilistica e compositiva – di un gruppo dall’esperienza ventennale, sempre “sul pezzo” ed al solito abile nel muoversi tra antico e moderno con sagacia ed un pizzico d’eleganza.
Una band insomma, che non tradisce il proprio buon nome e prosegue un cammino costruito sulle basi della coerenza e dello stile.
Come un grande ed esperto maestro di giornalismo musicale un tempo scrisse: “d’altronde, aprire i concerti di gente come Uriah Heep, Moody&Marsden e John Lawton Band non è mai per caso…”
Il nuovo “Clearwater” ne è l’ennesima conferma.