Recensione: Cobra Speed Venom

Di Gianluca Fontanesi - 12 Marzo 2018 - 0:02
Cobra Speed Venom
Band: The Crown
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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86

Cobra Speed Venom è di sicuro un album che verrà sottoposto a un test antidoping in tempi brevissimi; cosa però possa essere successo ai Crown negli ultimi tre anni rimane un fumoso mistero. Le nostre informazioni parlano di un ritorno alla Metal Blade e un ribussare alla porta del signor Fredrik Nordström, Fredman Studio, Göteborg, quindici anni dopo Possessed 13. Quello che, in apparenza, potrebbe sembrare un tentativo di ritornare ai bei tempi andati dagli ovvi dubbi risultati si rivela invece un terremoto discografico di proporzioni titaniche. Si parte già dalla copertina, che è la migliore mai avuta dalla band svedese, e da qui è un delirio. Volevate un ritorno alle sonorità di Deathrace King? Eccolo. Ecco una line up finalmente solida con l’innesto di Henrik Axelsson alle pelli e il capolavoro è servito. Dimenticate il loffio Death Is Not Dead, il normale Doomsday King, l’inutile Crowed Unholy e tornate pure a quando I Crown erano una band potente e pericolosa; tornate pure a quando la Svezia era una fucina di eccellenze, ci siete? Ora premete pure play.

Una breve intro sinistra apre le danze e Destroyed By Madness inizia quasi in sordina; il raddoppio di cassa però lascia intendere che i Crown di lì a poco non le manderanno di certo a dire ed eccoci accontentati. La produzione è grezza, sporca, organica e perfetta per il suono del disco; si sente e capisce tutto e le chitarre sembrano quella carta vetrata graffiata sulla pelle apposta per fare male. Henrik Axelsson è una macchina da guerra e il brano segna anche il ritorno in maniera massiccia ai blast beat, che occuperanno una corposa parte del disco. Sembra di sentire una band che suona a settantotto giri: riff old school, 2/4, aperture rock’n’roll, c’è tutto e anche di più. Il buon Johan nel ritornello si dichiara il re del caos e ne ha ben donde: non sbaglierà una linea vocale per tutta la tracklist e azzeccherà anche i ritornelli, in alcuni casi anche facilmente assimilabili. Le parti solistiche sono una più bella dell’altra e mai invadenti; la bestia è tornata e ha fame. Iron Crown colpisce ai mille all’ora con una strofa su batteria a elicottero e il ritornello in blast beat; lo stacco non è nulla che non sia già stato suonato da Slayer e soci ma non ci si fa caso più di tanto, non c’è tempo. Assolo al fulmicotone, ritornello, assolo e fine dei giochi. In The Name Of Death è iniziata da una serie di rullate ed ecco emergere la parte death’n’roll tanto cara ai Crown; il ritornello melodeath è fantastico, la ripartenza è urticante e i riff si susseguono senza respiro intervallati da assoli su assoli. “Come on and feel the noise in the name of death” entra in testa in maniera assassina e il finale è una vera e propria badilata sui denti. Mentre cerchiamo di fare mente locale per capire se sia tutto vero o no, We Avenge! riparte con un incedere in battere che rallenta appena le ostilità e martella l’ascoltatore con una monotonia di fondo che risulta parecchio efficace. L’inciso melodico spezza al momento giusto ed è in grado di innalzare il brano ad un livello superiore; si cuoce l’ascoltatore a fuoco lento ed è un momento assolutamente necessario. Il finale torna al battere e traghetta verso la titletrack, apriti cielo. Si torna alla brutalità inaudita e i Crown servono un altro brano clamoroso con un ritornello abrasivo, tapping sui blast beat, stacchi di basso e un saliscendi di ritmiche in grado di fulminare qualsiasi cosa possa capitare loro a tiro. Il finale riporta ai grandiosi anni novanta e la sua parte più brutale conclude in maniera secca e brusca.

World War Machine ha un incipit che rimanda addirittura agli Immortal di Sons Of Northern Darkness ed è un altro centro perfetto. Il mid tempo è da headbanging violento e gli inserti sono ovviamente in blast beat; il ritornello abbassa i toni e lascia spazio all’ascoltatore di cantare insieme a Johan il più assassino dei karaoke. Le chitarre e le armonizzazioni rimandano ai migliori In Flames, il ponte è un quintale di testosterone nel quale sembra di sentire i Deicide e conclude scambiandosi di posto con l’ottimo ritornello. Necrohammer ha un mood sincopato in apertura e presto ritorna al classico elicottero; il ritornello dal vivo farà sfracelli e anche qui siamo di fronte a un brano irresistibile nei riff slayeriani quanto nelle ritmiche. Rise In Blood va direttamente di blast beat e non ha voglia di fronzoli; lo stacco di basso è orgasmico e si alternano poi diversi gradienti di brutalità in un’orgia di componenti e stili che accontenterà davvero tutti. Where My Grave Shall Stand appare a questo punto dell’album un passo necessario: si tratta di un brano strumentale melodico e arioso che un po’ culla e un po’ disintossica lasciando le chitarre come protagoniste assolute in attesa del gran finale. The Sign Of The Scythe ha il compito di concludere l’opera ed è anche il brano più lungo della stessa: oltre sette minuti nei quali si offre sì quello che è stato già offerto ma si osa un po’di più. L’apertura ad esempio, prima dell’improvvisa partenza in 2/4, è quasi doom e fa la sua porca figura; ottima la chitarra melodica in sottofondo a fare da contrappunto e anche qui i Crown non si risparmiano di certo. Il brano rallenta in maniera imprevedibile e anche in questo frangente risulta particolarmente riuscito; l’assolo è sanguigno al punto giusto e segnaliamo il finale dove si sconfina nel prog regalandoci un risultato grandioso.

Cos’è successo quindi ai Crown in tutto questo tempo? Non ci è dato saperlo, ma il risultato è clamoroso. Cobra Speed Venom è un album praticamente perfetto, una fucina invidiabile di riff e un concentrato di brutalità che pochi riescono oggi a raggiungere in maniera credibile. E’ un album necessario, urgente nella sua composizione quanto negli stacchi e nel suo modo di essere; è un’entità che vive da sola ad ogni pressione del tasto play e ci riporta e periodi storici nei quali le cose erano meno studiate a tavolino e più spontanee. L’album vince nell’organico, nel gruppo, non negli orpelli in studio, e dal vivo sarà un massacro per chiunque si troverà sotto il palco. La prestazione della band è da vero e proprio stato di grazia e la sezione ritmica è semplicemente allucinante, qualcuno dia una medaglia a Henrik Axelsson. Cobra Speed Venom non è quindi solo un grande album dei Crown ma è il migliore album dei Crown assieme a Deathrace King e sarà un serissimo candidato a disco dell’anno 2018. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato ma ora è qui e godiamo come dei ricci.

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