Recensione: Cocktail
Una contraddizione, o forse una dichiarazione di coerenza, è il biglietto da visita dei Sushi Rain, band fiorentina nata dalle ceneri della hard rock band Valentine: a fronte di un sound che miscela sapientemente progressive e funk (immaginate di unire Elio e Le Storie Tese a certi King Crimson) abbiamo artwork, layout e testi spiazzanti, ironici, e con una predilezione per certo realismo “sporco”.
In copertina vediamo un negozio manzoniano, intro e outro sono demenziali, l’opener ha un titolo che è tutto un programma; tra le righe dei testi notiamo una sorta di acronimo che va a comporre la frase “What we think ‘bout this album”. Per finire i componenti del gruppo hanno appellativi altisonanti e si presentano come creature a metà tra il reale e l’irreale.
C’è parecchia carne al fuoco, la cura per i dettagli stride con artwork e certe lyrics, Cocktail – masterizzato presso il Masterfonics Studio di Nashville e distribuito per Jackson Records, etichetta indiana indipendente – presenta tutte le carte in regola per intrigare l’ascoltatore.
“Bunga bunga” ha un tiro da urlo, l’apporto del sax rende il sound dei SR gustoso e saturo insieme alle voci femminili dei cori, le scale all’unisono chitarra-tastiera sanno di prog. ben metabolizzato. La parte solistica alterna parti tecniche a break pseudo-reggae, l’eclettismo è di casa.
“Why” è un altro pezzo scoppiettante. Voce maschile e femminile si alterano in strofe che ridicolizzano stereotipi annosi e luoghi comuni. Ci sarebbe stato bene un po’ più di slap (che però non manca nel platter), ma si respira comunque una tonificante aria anni Settanta. Genio e follia, coppia inscindibile e incarnata dalla pioggia di sushi.
Giro di chitarra zeppeliniano per l’avvio di “One last night Philadelphia”: ottimi i sintetizzatori, il sax è a tratti sguaiato ma ci sta. Sono avvertibili alcuni influssi degli ultimi Pain Of Salvation, quelli più caustici.
“Pillows” è un pezzo impegnativo, tra dissonanze e cadenze prog. Il refrain è smodato, i minuti solistici sono allucina(n)ti, ricordano i migliori Frost.
“March of Groove” parte con l’accostamento sapiente di sax e hammond, uno dei tratti caratteristici dei SR. Volendo continuare con il gioco delle citazioni, questa volta vengono alla mente gli Area e i già citati King Crimso. Da segnalare al sesto minuto una parte in scat.
I ritmi rallentano un attimo con la ballad “Free”: la dissociazione testi musica è mirabile («Screaming to me, please make me feel free»). Matteo Carrai se la cava al microfono, ma c’è qualche licenza di troppo.
“Jesus Cries from your eyes” è un pezzo arrabbiato, sembra di ascoltare degli ipotetici Unitopia su di giri; l’assolo di Frak Pilato è seguito da un parte in slap e il solito sax mai improvvido. “It’s time to Believe” procede su binari rilassati, con inserti pseudo-hawaiani e testi autoreferenziali («We are the incredible Sushi Rain power and melody / a group of real friends linked by harmonic connection»). La parte centrale ricorda i Beardfish, tra le band neoprog. scandinave più acclamate e misconosciute dai più. “Sushi Rain Can’t write a single” continua il discorso metamusicale e si rivel,a nonostante il titolo, un buon pezzo, anche se il refrain cadenzato è un filo stucchevole. Una feroce invettiva antitaliana è il cuore della seguente “Brain Drain”, brano con buoni unisoni e inventiva.
L’album si chiude con “One”, ballad toccante e poetica («We can spend the rest of our life as one / please God, hear my prayer, I am a good man»), impreziosita dal violoncello di Stefano Aiolli. Dopo alcuni secondi di silenzio, nei secondi finali dell’album trova spazio una coda francamente fuori contesto e boccaccesca: va bene l’ironia, va bene l’originalità dei SR, ma si poteva evitare di chiudere un bel disco come questo con un suono di WC.
In conclusione, nonostante alcuni difetti, Cocktail è un album notevole e, come dice il titolo parlante, dall’identità ibrida: i Sushi Rain hanno classe e originalità da vendere. Il loro secondo studio album è forte di una cura nei dettagli meritoria, a fronte di un’ironia tagliente e certe scelte d’immagine discutibili. Il gruppo fiorentino non può che migliorare, intanto godiamoci gli undici brani di Cocktail.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamantyhs)