Recensione: Cocoon
Francia. 2017. Una delle patrie del black metal moderno. Non solo. Del metal in genere. Melodic death metal, nella fattispecie. Fattispecie dei Serenius e del loro terzo album in carriera: “Cocoon”.
Il terzo full-length rappresenta, tradizionalmente, la prova del nove per stabilire se, quando e come, una formazione avrà, oppure no, successo. In questo caso, successo relativo, poiché trattasi di un genere di nicchia, peraltro come da definizione di metal.
“Cocoon” non è un capolavoro, né un grande album. Meglio chiarirlo subito. Con che, è probabile che i Serenius non emergeranno mai dall’underground più underground. Non è nemmeno scarso. Semplicemente, è come tanti.
L’ensemble parigino, tecnicamente parlando, sa il fatto suo. Del resto, sono dodici anni che calca le scene. Quindi, sound adulto e maturo, privo d’incertezze, scevro da indecisioni di sorta. Il che non è matematico che viaggi assieme all’età, anzi. Occorre pertanto darne giusto merito, ai Nostri, della loro professionalità e serietà.
Lo stile, primo punto debole, è però scolastico e privo di barlumi evoluzionistici. Spesso si trasforma quasi in deathcore, pur tuttavia la sensazione che se ne ricava è quella di un déjà-vu. Certamente non si può imputare alcuno sforamento dai dettami tipologici che reggono il death metal melodico, tuttavia, in pieno 2017, si dovrebbe osare di più. In quest’area metallica è già stato detto e scritto tutto, riguardo alle derivazioni del primigenio gothenburg metal, per cui è lecito aspettarsi speranzosi qualche scintilla progressista. Circostanza che, nelle corde dei Serenius, non c’è affatto.
Il secondo punto debole è il songwriting. Non pessimo ma, anch’esso, piuttosto derivativo. Tutto è in ordine, in “Cocoon”. Troppo. Con che, svanisce come nebbia al sole l’effetto sorpresa: una volta passate quattro/cinque song, più o meno si sa già cosa riserveranno le altre. Con due eccezioni cioè due brani davvero riusciti, che spiccano come vette sugli altopiani: ‘Shadows of Misery’, nobilitata da un giro armonico di chitarra di gran classe ma, innanzitutto, la closing-track, ‘Infinity’. Dal forte sapore di suite, il brano accarezza le orecchie con il suo incipit morbido e vellutato. Per poi esplodere con tutta la potenza di un genere che, quando si vuole, può offrire lo spunto per scatenare tutta la cavalleria a disposizione.
Se rapportato al resto, è un po’ poco e, difatti, “Cocoon” non può che salvarsi per un pelo da un’infausta insufficienza. Certo è che la qualità della composizione fosse elevata come quello dei due pezzi più su citati, non si tratterebbe di un masterpiece ma quasi.
Rimandati.
Daniele “dani66” D’Adamo