Recensione: Codex Atlanticus
Il metal melodico degli austriaci Serenity incontra in “Codex Atlanticus” Leonardo Da Vinci, maestro indiscusso ed universalmente riconosciuto come uno tra i più grandi geni della storia dell’umanità, massimo interprete del rinascimento italiano: studioso, precursore ed innovatore nelle più disparate discipline. Il titolo del quinto full-length dei Serenity richiama il celebre Codice Atlantico, illustrato assieme al genio toscano nell’ottimo artwork: dodici volumi conservati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, contenenti scritti e immagini di anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica, disegni di macchine, studi sul volo degli uccelli e progetti d’architettura. Un’esplosione creativa che è forse un unicum nella storia dell’uomo.
Le premesse per un buon lavoro c’erano tutte. Il predecessore “War of Ages” (2013) è infatti un disco decisamente convincente, un lavoro tra power, melodic e symphonic che ha trascinato la band nell’olimpo del genere di appartenenza. Anche il progetto Phantasma di Georg Neuhauser con Charlotte Wessels (Delain), uscito con il bellissimo concept che risponde al nome di “The Deviant Hearts”, non poteva che essere un ottimo auspicio per questa rivisitazione in chiave metal del codice, assurto a sineddoche della vita e dell’opera del genio di Leonardo Da Vinci.
Qualcosa dev’essere andato storto. Affrontare infatti un personaggio del genere richiede una qualche preparazione, soprattutto se il lavoro finito vuole fregiarsi del titolo di concept-album. Del resto non basta saper scrivere per produrre un buon romanzo. Gli austrici sembrano aver preso a modello di riferimento lo scrittore americano Dan Brown, che con il suo “Il Codice Da Vinci” fu fenomeno editoriale tra la pubblicazione del libro, avvenuta nel 2004, ed il 2006, anno di uscita dell’omonimo film di Ron Howard con Tom Hanks, Audrey Tautou, Ian McKellen e Jean Reno. Leonardo Da Vinci diventa quindi in “Codex Atlanticus” un improbabile paladino della conoscenza costretto a lottare contro un non ben specificato ordine degli Illuminati (Adam Kadmon è in agguato!), un movimento oscurantista di ispirazione teologica (o almeno così traspare dal video del singolo “Follow Me” e dalle sue liriche) intenzionato ad impedire il progresso scientifico. La narrazione risulta pertanto molto incerta, con liriche incentrate su concetti vaghi e confusi, dove sembrano trasparire più le emozioni del personaggio che veri e propri pensieri. Rimandati in storia.
Veniamo comunque alla musica, oggetto principale della presente analisi. Qui, almeno in gran parte, i ragazzi sembrano colpire il bersaglio. Pur con un leggero calo rispetto al lavoro precedente, probabilmente dovuto sia all’assenza di Clémentine Delauney (Visions of Atlantis) che alla rinuncia di parte dell’apparato sinfonico, le melodie sono sempre molto ficcanti e la produzione è decisamente pulita e gradevole, lasciando scorrere gli undici brani che compongono il platter con grande piacevolezza e naturalezza. Nota positiva per i lead e backing vocals del bassista Fabio d’Amore. Di nuovo elogiabile anche il lavoro sugli arrangiamenti molto raffinati, sin dalla titletrack strumentale che è anche intro di “Codex Atlanticus”: avventurosa e decisamente d’atmosfera.
Buono anche il singolo “Follow Me”, ma che già denota qualche incertezza. Ci vuole coraggio per scrivere un ritornello che annuncia: “Here I am/ here I stand/ nothing left to say”, soprattutto se quello che non ha nulla da dire è il più grande genio del rinascimento italiano. Per il resto la melodia è piacevole, la produzione pressoché perfetta una vera goduria, nonostante le numerose tracce che suonano assieme, dai cori al backing orchestrale alle chitarre alla martellante linea di basso.
Dalla più serrata “Sprouts of Terror” passiamo alla notevole “Iniquity”, tra gli episodi meglio riusciti del disco dal sapore epico e trionfalistico. Banalotta la successiva “Reason”, buona invece la ballad romantica “My Final Chapter” coi suoi flauti ad addolcire l’ascolto e con la voce de Georg che ricorda quella di Tony Kakko. Ancora episodi molto prevedibili fino a “The Perfect Woman”, presumo riferita alla Gioconda, una bella ballata sinfonica tra hard rock ed AOR che a tratti ricorda addirittura i Queen.
Degna di nota anche “Spirit in the Flesh”, cavalcata power stile Sonata Arctica in cui Fabio D’Amore duetta con Georg Neuhauser. La chiusura affidata ad un pezzo telefonato “The Order” lascia invece decisamente l’amaro in bocca, non riuscendo a sortire l’effetto-riascolto che sarebbe auspicabile. Peccato.
Con “Codex Atlanticus” i Serenity sembrano dunque non aver colto la perfezione geometrica ed umana dell’Uomo Vitruviano, realizzando un album incompleto, a tratti molto gradevole ma mai del tutto convincente, la cui estrema linearità narrativa e musicale va imponendosi con gli ascolti. Discorso a parte per l’eccellente produzione ed i raffinati arrangiamenti sinfonici, per una band che ha tutte le carte in regola per scrollarsi di dosso il velo di mediocrità di quest’album: un disco che rimarrà nel cuore ai soli fan della band, lasciando probabilmente poco più che qualche bella melodia a tutti gli altri. Per quanto musicalmente gradevole ed ottimamente prodotto, il codice atlantico rivelato dai Serenity non riesce a nascondere la soggiacente incompiutezza e le sue stesse lacune.
Luca “Montsteen” Montini
Investigate, secrets revealed
My book of life’s full of holes…