Recensione: Cold Black Suns
Quella dei belgi Enthroned è una storia che comincia nel lontano 1993 e più precisamente con il primo full-lenght, quel Prophecies Of Pagan Fire che nel 1995 dimostrò come agli albori del genere, il trio sarebbe stato capace di dire la sua in una scena black metal pronta a invadere prima l’Europa e poi il mondo intero. A 24 anni di distanza e con numerosi cambi di formazione, il combo è divenuto un quintetto e non ha più che uno solo tra i membri fondatori tra le proprie fila, ovvero Nomagest che si fa carico ormai da dieci anni di chitarra e voce. Come il mondo black è cambiato, anche il sound degli Enthroned ha subìto le logiche trasformazioni, senza per questo perdere però quel gelido sapore selvaggio di una musica che non intende seguire alcun tipo di trend, ma soltanto la direzione che essi vogliono imprimere nel nuovo e undicesimo capitolo della discografia.
Si intitola Cold Black Suns, ma non fatevi ingannare dai richiami all’infinito cosmico à-la-Arcturus, perché la proposta dei belgi è intrisa da un sound granitico e con pochi fronzoli, dove l’unica variante sul tema di velocità folle e ritmiche schiacciasassi è data dai numerosi break che il gruppo inserisce, prevalentemente con l’intenzione di accentuare le ripartenze e così quel continuo deflagrare di muri chitarristici (sono addirittura tre) e una sezione ritmica valorizzata da una produzione che mette in risalto i toni bassi, sorretti dalla voce di un Nomagest in gran spolvero e che nel giro di pochi minuti spazza via i 5 anni di attesa dal precedente disco.
L’introduttiva Ophiusa si occupa di creare la giusta atmosfera, dandoci modo di abbassare le luci e cercare di visualizzare al meglio il tetro contesto in cui questi “freddi soli neri” non saranno mai in grado di illuminare le nostre misere esistenze. L’esplosiva Hosanna Satana ti fa saltare dalla sedia e sfrutta stacchi e cambi di tempo che le consentono di assumere uno spessore ancora più malvagio. A seguire Oneiros, la quale intraprende toni decisamente più atmosferici, evocativi, quasi onirici, perlomeno sino a quando Vapula Omega torna su velocità supersoniche e dove la ossessionata e ossessiva voce di Nomagest da prova che il quintetto belga non è qui per caso. Proprio nella prima parte del disco abbiamo una buona varietà di canzoni, mentre nella seconda si possono apprezzare maggiormente una risma di episodi che giocano fortemente sul discorso dei break di cui vi ho accennato prima. Silent Redemption avrà pure la struttura più tradizionale, ma funziona bene, mentre Aghoria butta dentro qualche tratto old school. Sul finale, con Smoking Mirror veniamo introdotti da un incipit cupo come il buio pesto dello spazio, così silenzioso e indifferente che potrebbe rappresentare l’epilogo ideale dell’album. C’è però ancora tempo per Son Of Man, la traccia più lunga (sfiora i 9 minuti) e che risulta molto godibile, a patto che siate pronti ad affrontare questo viaggio in un luogo ben più che disabitato.
Il punto è che Cold Black Suns non è un capolavoro e nonostante non rappresenti neppure un’ora della vostra vita che sarebbe stata meglio trascorrere a fare dell’altro, non riesce nel compito di crescere dopo qualche ascolto più approfondito. A dire il vero, qualche episodio guadagna punti se vissuto nel modo giusto, con l’attenzione che si dovrebbe concedere a qualcosa di così emotivamente freddo, ma nel computo finale ci si trova maggiormente a raccogliere le aspettative che si avevano prima di pigiare il tasto play e rimetterle insieme, magari per il prossimo appuntamento con la leggenda belga. Un disco per appassionati, per cultori del genere, non indispensabile, ma a suo modo ugualmente capace di tenere in pista una realtà che taglia il quarto di secolo, il che – soprattutto in questo genere – non è affatto un traguardo da dare per scontato.
Brani chiave: Hosanna Satana / Vapula Omega / Son Of Man