Recensione: Cold Blood War
L’Est europeo in materia di death metal non è solo la Polonia. E serbi Infest son qui a dimostrarlo. Una carriera cominciata nel 2002 che annovera due demo (“Inquisition”, 2003; “Time To Die”, 2005), un EP (“Christ Denial”, 2008) e ben quattro full-length (“Anger Will Remain”, 2006; “Onward To Destroy”, 2009; “Everlasting Genocide”, 2011; “Cold Blood War”, 2014).
La citazione del Paese che si affaccia sul Mar Baltico non è un caso, poiché il sound del combo di Jagodina potrebbe rientrare tranquillamente in quello che ormai da più parti si definisce come ‘polish death metal’. “Cold Blood War”, infatti, è una monolitica, micidiale, mortale mazzata in piena faccia; un’aggressione sonora violentissima che non ha nulla a che invidiare a quelle di band leggendarie come Vader e Behemoth. Quasi a mutuare quell’‘orgasmo sonoro’ che risponde al nome di “Reign In Blood” degli Slayer (1986), gli Infest concentrano tutta la loro furia scardinatrice in soli trenta minuti di durata (peraltro comprendenti un bonus), compattando al massimo stile e canzoni.
Stile asciutto, pulito e preciso, che si giova dell’evidente preparazione tecnica dei Nostri, della loro esperienza nonché di un retroterra culturale di tutto rispetto. Pur non innovando praticamente nulla, “Cold Blood War” è una specie di manifesto del death classico suonato in maniera moderna. Privo cioè di contaminazioni e spunti progressisti ma anzi ricco – oltre che di sonoorità al passo coi tempi – di thrash che, si sa, ha fornito ai capostipiti della morte nera lo spunto, a fine anni ’80, per esagerare in tutto e per tutto, musicalmente parlando. Quest’approccio, quindi, rende il platter ricchissimo di riff ‘a motosega’, la cui tremenda compressione e il deciso blocco del palm-muting donano ai medesimi una capacità di taglio abnorme, giusto da smembrare anche le articolazioni più robuste. Buona la prova di Zoran “Vandal” Sokolovic il quale, esattamente come il più noto Piotr Pawe? “Peter” Wiwczarek, senza farsi troppo notare sciorina una prestazione ‘perfetta’ per il genere, tutta gola e polmoni. Così come l’invasato Zombie che, al contrario del war-name, pare un polipo in overdose da adrenalina.
Tornando alle song, dire che non lascino respiro è dire poco. A parte qualche raro momento di relativa tranquillità (sic!) – “Demonic Wrath” – , il trend imperante è impostato sulla massima volontà di devastare. Basta poco per rendersene conto: dopo l’ortodosso intro ambient/horror (“Intro”), il terremotante riff di “Destroyer Of Their Throne” fa davvero saltare in aria le coronarie. Essendo del tutto assente la melodia, i chorus sono tutti preda della riottosa veemenza del vocalist, che li rende arcigni come le orde demoniache e monolitici come il granito. Da cappottamento pure il main-riff di “Kill Their Weakness”, clamorosamente irresistibile della sua follia fracassatrice. Da ribaltamento, come se non fossero bastati i predecessori, anche quello di “Among The Fallen Ones”, breve ma intenso brivido di dolore che porta un po’ il flavour sull’hardcore. Sapore che diviene più intenso nella già menzionata “Kill Their Weakness”, il cui break (si fa per dire) centrale ricorda con decisione Billy Milano, Ian Scott, Dan Lilker e Charlie Benante, cioè i mitici S.O.D. dell’intramontabile “Speak English Or Die” (1985). Un modus operandi che è mutuato, inoltre, in “Terror Lord”.
Null’altro da aggiungere: “Cold Blood War” è tanto inutile alla causa della teoria dell’evoluzione quanto utile a quella dell’annichilazione dei timpani.
Daniele “dani66” D’Adamo
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