Recensione: Collateral
Peregrinando a spasso tra le nuove uscite degli ultimi mesi, la curiosità ci ha portato ad imbatterci in questi interessanti esordienti britannici, fautori di un debutto che sin dall’artwork ha acceso la proverbiale lampadina in fronte.
L’hard rock polveroso ed un po’ “rurale” con riferimenti southern, è da sempre uno dei nostri piatti preferiti ed i rimandi derivanti dall’iconografia di copertina hanno rappresentato un invito troppo succulento per non essere accolto.
Sfida accettata dunque e largo all’approfondimento per verificare direttamente se le aspettative potessero corrispondere – almeno in parte – alla realtà.
Asciutto, agile e di facilissima assimilazione, il primo capitolo discografico dei Collateral – uscito dopo un primo EP datato 2018 ed una serie di affermazioni in vari contest per band emergenti – ha, in effetti, per lo più soddisfatto le nostre attese, rivelandosi piuttosto piacevole e ben confezionato.
Le impressioni subodorate d’istinto sono state suffragate dai fatti: il genere proposto è uno stimolante innesto tra le tematiche del country elettrico ed orecchiabile, mescolato all’hard rock torbido ed spigoloso, condito da qualche spruzzata mainstream.
Un po’ come se Tim McGraw e Kenny Chesney si mescolassero a vecchi eroi come Tattoo Rodeo e Tangier (chi se li ricorda?), contornati però da un’oncia dei Nickelback.
Un menù niente male.
Sono tuttavia due le ragioni che non consentono di considerare il primo omonimo album dei Collateral un vero colpo da novanta.
Senza nemmeno discutere del valore dei singoli – superfluo ed improduttivo – quello che convince meno è la scarsa omogeneità di un prodotto che si presenta oltretutto abbastanza limitato nei numeri e nella durata: poco più di mezz’ora di musica con soli nove pezzi in tracklist posizionati in scaletta letteralmente come se fossero “spaccati in due”.
Una prima parte cioè, infarcita di suoni hard rock ruvidi e gagliardi, chitarre solide e ritmi ardenti.
Una seconda, al contrario, che sembra appartenere ad un altro cd, giocata quasi esclusivamente su tonalità country del tutto slegate dall’elettricità ottantiana dei brani posti in apertura. Mettere a fianco la coriacea opener “Mr. Big Shot” e la conclusiva “About this Boy” offre in modo lampante la lettura di un disco che cambia umore drasticamente con lo scorrere delle canzoni. Dalla grinta dell’hard rock da arena alle atmosfere bucoliche che strizzano l’occhio a palcoscenici da festival di paese.
L’effetto lascia disorientati e non contribuisce in modo risolutivo a cristallizzare un’idea su quale possa essere la vera natura di quanto imbastito dal quartetto britannico, ancora un po’ indeciso sul percorso da intraprendere compiutamente.
Per il prosieguo di carriera potrebbe essere auspicabile il focalizzare meglio gli obiettivi, scegliendo in modo univoco la direzione da seguire.
Sarebbe un buon passo in avanti, probabilmente determinante nel definire il buon esito di un progetto che, già ora, permette comunque d’intravedere valori consistenti e ben assortiti.