Recensione: Colour Temple

Di Alessandro Marcellan - 16 Dicembre 2006 - 0:00
Colour Temple
Band: Vanden Plas
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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75

“Vanden Plas” è il nome di una casa automobilistica belga, ma è anche un nome che suona bene per una band di heavy metal e sembrerebbe non offrire indizi circa il sound dalla stessa adottato: questo deve aver pensato Andy Kuntz quando, nella Kaiserslautern di metà anni ‘80, decide di dare vita alla sua “creatura” assieme ai fratelli Lill e al bassista Torsten Reichert (di lì a poco si aggiungerà anche il tastierista Günter Werno). E’ il 1986 l’anno del 1° singolo “Raining In My Heart”, ma dovranno passarne ancora ben 8 (a parte un paio di altri singoli e un demo-tape del 1991 a spezzare l’attesa) per la pubblicazione di un full-lenght in Germania: un percorso lungo e tortuoso, in grado di spiegare l’origine di alcune delle caratteristiche, in qualche misura “fuori tempo”, del disco qui recensito.

Va da sé che l’introduzione di questo “Colour Temple”, estratto da un celebre quanto sconvolgente (per l’epoca) balletto di Stravinsky (“La sagra della primavera”), potrebbe fuorviare: ma i Vanden Plas brillano per umiltà e sembrano già scrutare all’orizzonte gli inevitabili anni di gavetta, e così quell’ossessivo blocco sonoro di contrabbassi e violoncelli, in cui alcuni critici contemporanei intravedono persino una forma arcaica di certi riffs HM, rimarrà l’unico episodio avanguardista di un disco comunque non scevro di spunti di interesse. Sia chiaro dunque che il sound (checché ne dicano quanti affermano una ultradecennale stagnazione stilistica dei tedeschi) è ben lontano da quello dei Vanden Plas che conosciamo oggi, anzi non è nemmeno prog in senso proprio (né in senso “canonico”), ma piuttosto una miscela atipica che unisce il class-metal dei Dokken con certe partiture raffinate della scena proto-progressiva, ossia quel filone techno-metal che nella seconda parte della decade precedente aveva messo in luce band clamorose come Queensryche, Fates Warning e Crimson Glory.

L’influenza “class” risulta in particolare prevalente nella prima traccia “Father” (che pure presenta le prime avvisaglie progressive nei vaghi richiami finali alla celebrata “Pull me under”) e lo stesso dicasi per le trame hard’n’heavy di “Push” e “Back to me”, nelle quali il protagonista assoluto è Stephan Lill con un pregevole lavoro chitarristico che rimanda agli Eighties più patinati. C’è da dire che in pezzi di questo tipo, nati per essere diretti e immediati, si potrebbe talvolta desiderare qualcosa di più a livello di incisività delle linee melodiche (specie nei refrain), che non sono ancora quelle longeve, mai troppo catchy eppure tremendamente efficaci e ricercate, che diverranno un vero marchio di fabbrica per la band. Risulta inoltre ancora in secondo piano, oltre che un po’ spoglia in quanto a gamma di suoni, la tastiera dell’ultimo arrivato, quel Gunther Werno che, prima di diventare uno dei leader della band, riesce qui comunque a ritagliarsi alcuni buoni spazi solistici, rifacendosi peraltro più ai caratteri del new-prog (o dei Genesis) che ai funambolismi tipici di un Emerson. La voce di Andy Kuntz invece si fa già notare per l’originalità (un inedito incrocio tra “Biff” Byford dei Saxon, Niihara dei Loudness, e…Sting!), orientandosi in modo abbastanza convincente sul lato emozionale, anche se sotto il profilo tecnico suona ancora un poco imprecisa in alcuni frangenti (essa acquisirà spessore -anche interpretativo- allorché il buon Andy si personalizzerà, abbandonando alcune delle sue influenze per sintonizzarsi gradualmente -e saggiamente- più sulle lunghezze d’onda del noto “Pungiglione” inglese).

Non è comunque un caso che i Vanden Plas di questo primo album diano il meglio quando decidono di “osare” e nel momento in cui il ruolo dei vari strumenti si bilancia, e ciò risulta con tutta evidenza in “When the wind blows”, uno dei brani in cui è l’altro marchio, quello del metal “tecnico” di fine anni ‘80, ad emergere con prepotenza. Ritmo moderato, un accordo secco che si ripete all’inizio di ogni battuta e si alterna ad un arpeggio accennato, basso e grancassa coordinati, poi una misurata accelerazione con serie di bicorde distorti a sfociare in un elegante ritornello: prendete questi 7 minuti e avrete ciò che sarebbero stati i Queensryche nel 1994, se avessero proseguito il discorso interrotto con “Empire”. Banale forzatura, dite? Sta di fatto che è questo l’ambito sonoro in cui i Vanden Plas sembrano trovarsi più a loro agio (e il tempo non tarderà a confermare questa tesi), tanto che ritroviamo le coordinate in questione in “My crying” (molto “Crimson Glory-oriented”), nei lunghi arpeggi della “gelida” ballad “Anytime”, e ancor più nella 7a traccia, quella “Judas” che potrebbe apparire come una “The Needle lies – part II”, con il suo trascinante up-tempo fatto di chitarra e basso che entrano ed escono repentinamente, e con un esplosivo ritornello in questo caso davvero azzeccato. Restano i due brani più lunghi, quelli che hanno il compito di spezzare la dicotomia espressa dall’impari sfida “class vs. techno-metal”. Parliamo in primo luogo di “Soul survives”, il cui attacco, dopo un sofferto incipit di pianoforte e voce, va forse incautamente a lambire quello di una certa “Learning to live” (curioso anche un richiamo agli Yes nel passaggio “Round and round and round we go…”), ma che nell’incedere della strofa e del ponte, negli ossessivi riffs in mid-tempo e nel maggiore spazio a tastiere ed a pur sobri tecnicismi ritmici, ci mostra un embrione di quanto sentiremo spesso nei dischi futuri: i Vanden Plas che tutti conosciamo iniziano verosimilmente qui. Colpiscono nel segno, infine, gli 8 minuti della conclusiva “How many tears”, che sono tra l’altro anche i più anomali: premesso che in comune con il famoso pezzo degli Helloween qui c’è solo il titolo (anche se il giro di chitarra acustica posto in apertura e quel “Brother!” esclamato subito dopo mi rimandano in realtà a qualcosa di Chameleon), non è certo di routine la fase strumentale in cui fa capolino un’imprevista jam hard-funkeggiante di chitarra e basso, seguita da qualche influenza jazz nel pianoforte e in certi vocalizzi del finale.

Facendo un po’ di conti: “Colour temple” è nel complesso sicuramente un buon disco (considerato anche che si tratta di un esordio), che comunque piacerà più agli appassionati della melodia HM di classe che ai puristi del prog-metal. Le sue eventuali carenze vanno invece ricercate in una certa disomogeneità, derivante dal mix di influenze accumulatesi nel corso di 8 anni, e in una personalità del sound conseguentemente ancora da farsi (elemento su cui i Vanden Plas avranno modo di affermarsi in modo crescente nel corso degli anni). A quanti conoscono solo i lavori successivi, consiglio pertanto di avvicinarsi al disco tenendo conto di queste possibili “controindicazioni”, mentre a chi non ha mai sentito la band dico di accostare “Colour temple” con “Christ 0” o “Beyond Daylight”…poi fatemi sapere se non vi sembrano due proposte, sempre valide, ma soprattutto diverse, in una prospettiva che non possiamo che chiamare “evoluzione”.

Alessandro “poeta73” Marcellan

Tracklist:
1. Father (5:38)
2. Push (4:15)
3. When The Wind Blows (7:10)
4. My Crying (5:25)
5. Soul Survives (9:05)
6. Anytime (7:06)
7. Judas (6:01)
8. Back To Me (5:30)
9. How Many Tears (8:19)

N.B.: il disco è stato pubblicato originariamente nel 1994 in Germania con copertina viola (ed. LMP). E’ del 1995, invece, l’edizione ufficiale della Dream Circle per il resto d’Europa e il Giappone. Sotto Inside Out è infine uscita un’edizione speciale nel 2002 contenente il bonus-cd di “AcCult”, EP del 1996 con versioni acustiche dei brani di “Colour Temple”, oltre che del primo singolo “Raining In My Heart” e di altri artisti fra cui Marillion e Ray Charles.

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