Recensione: Colours In The Sun
Giochiamo a carte scoperte, io non avevo mai ascoltato un album degli australiani Voyager prima di “Colours In the Sun“. Non saprei neppure dire se li avessi mai notati prima, se avessi magari visto distrattamente un loro video, fatto sta che il quintetto sotto contratto con Season Of Mist è in realtà al settimo album in carriera, ha esordito nel 2004 con “Element V” ed io ero la bella addormentata nel bosco. Meglio tardi che mai verrebbe da dire, se il disco che si stringe tra le mani è del livello di “Colours In The Sun“. A marzo vengo letteralmente folgorato dal videoclip di “Brightstar“, primo singolo scelto come antipasto per l’album che uscirà poi a novembre. Un pezzo clamorosamente bello e potente, evocativo, pieno di suggestioni, emotivo ed al contempo mai retorico o patetico (nell’accezione più deteriore del termine “pathos”), intimo e profondo ma non arrovellato su se stesso, solare ma non sciocco, musica che ti fa esplodere orizzonti infiniti in faccia, ti invita a pensare al futuro e ad abbandonarti al flusso. Come se non bastasse, anche visivamente il videoclip è splendido, pare la band perfetta, ma dopotutto questa è solo una canzone che farà parte di una intera tracklist, come risulterà l’intero l’album? Reggere un livello simile sarebbe pazzesco. Beh, una manciata di mesi dopo possiamo dirlo, è pazzesco ma i Voyager ce l’hanno fatta e in scioltezza, “Colours In The Sun” rientra di diritto tra i migliori dischi del 2019, perlomeno tra i miei personali.
Rock progresivo, che non ama confinarsi dentro steccati troppo asfittici, c’è del metal, c’è del rock, ci sono spunti alternativi, c’è tanto groove, c’è un gusto ammmirevole per le melodie, c’è una maestria assoluta nelle ritmiche, nel saper dosare i tempi, spezzarli, amalgamarli, fonderli, aprire e chiudere, c’è una energia, una forza, un’onda d’urto che pare quella del Big Bang in piena attività di creazione della materia, onde dell’oceano che si infrangono contro le rocce originando geometrie originali, irripetibili e particolari. Tanto per cominciare l’album non ha un riempitivo che sia uno, ogni traccia ha la sua raison d’être, una sua personalità specifica, un suo posto nell’insieme, una raggiera di esperienze, sensazioni e palpitazioni delle quali per fortuna non veniamo privati da parte dei Voyager. Certo, ogni ascoltatore individuerà poi tra queste le proprie preferite, quelle con le quali le proprie affinità elettive risuonano più acutamente, ma si parte dal presupposto che i 42 minuti di “Colours In the Sun” brillano incessantemente, come una supernova al climax del proprio fulgore. Il track to track vale quel che vale, per ogni momento in scaletta si potrebbero trovare sottolineature degne di note; oltre alla già citata “Brightstar” (uno di quei pezzi che solitamente una band è in grado di comporre ogni decennio, quando ci riesce), personalmente mi sono liquefatto al cospetto di “Colours“, “Severomance“, “Sign Of The Times“, “Water Over The Bridge“, davvero enormi per maestosità, efficacia, vastità ed espressività.
Ad impreziosire il tutto la prestazione vocale di Danny Estrin, senza il quale quest’album non sarebbe lo stesso. Grandissima personalità, un vero narratore, limpido ed argentino nelle sue intonazioni, mai banale, e soprattutto meravigliosa timbrica, modulata con dinamismo e gusto. Non sono da meno i suoi band mates, accorti e sapienti nel tessere la tela strumentale, nello scagliare i colori sulla tela, con particolare menzione della sezione ritmica, eccellente in ogni suo fraseggio. Complessa ma non astrusa, immediata ma non facilona. Una sorta di sinergia perfetta insomma, un equilibrio alchemico ed un po’ magico di quelli che a volte accadono una sola volta in carriera, nel posto giusto, al momento giusto, tra spiriti affini. Non posso che indirizzarmi sulla precedente carriera del combo di Perth, nella speranza di trovare dell’altro che quantomeno si avvicini al godimento che mi ha procurato l’ascolto della loro settiman fatica. Con i Voyager (verso l’infinito) il viaggio è assicurato.
Marco Tripodi