Recensione: Columbus Way

Di Marcello Catozzi - 25 Ottobre 2011 - 0:00
Columbus Way
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Anno: 2011
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80

La copertina di “Columbus Way”, album di esordio di questo quartetto lodigiano, ritrae una highway americana e rappresenta, nel modo migliore, l’ambientazione visiva di ciò che l’ascoltatore troverà nel disco: sano e genuino Southern Rock, interpretato con stile e condito con interessanti novità.

Il CD, prodotto da Mario Percudani, edito da Tanzan Music, è stato registrato presso Tanzan Music Studios. La formazione annovera Gianluca “Luke” Paterniti (voce), Diego “Blef” Dragoni (chitarre), Fabrizio Costa (basso) e Daniele Vacchini (batteria e percussioni). La band, nella realizzazione delle tracce, ha fruito di illustri collaborazioni, che rispondono ai nomi di Mario Percudani e Josh Zighetti (Hungryheart), Paolo Apollo Negri, Barbara Boffelli ed Elisa Paganelli.

Detto ciò, ora possiamo accendere il motore e partire per il nostro viaggio, dedicandoci all’ascolto lungo la soleggiata highway che taglia il deserto.
La prima traccia, “Old Jack”, suona molto easy e ha in sé tutta la grinta e l’impeto del vecchio e sano Rock and Roll, infarcito da: riff portante, voce un po’ sporca, assolo prepotente, coro molto “catchy”, il tutto nel segno di una decisa compattezza sonora di ottimo impatto. Una brusca partenza che lascia ben sperare…
“The Lover” si apre con un riffone prolungato, che dopo qualche battuta assume una sua ben precisa fisionomia, per diventare poi l’impalcatura su cui si regge l’intero brano, smaccatamente hard rock oriented, un po’ purpleiano nella struttura, con un basso potente, un assolo chitarristico assai incisivo, arricchito da possenti stacchi che gli conferiscono spessore e versatilità.
In “Chains of mind”, dopo un accenno di chitarra distorta, l’intro diventa impetuosa e apre le orecchie dell’ascoltatore a un altro passo significativo, davvero apprezzabile nel sound e in quell’alternanza tra momenti più pacati e altri più esplosivi, quel tanto che basta per dare consistenza e brio alla canzone.
Il rumore della coda di un serpente a sonagli introduce la raffinata ”Born to run”, che rallenta il ritmo rispetto alle precedenti tracce. Anche la voce si fa più calda e dolce, accompagnata da melodici arpeggi acustici che creano un quadro suggestivo, con tonalità pacate e colori pastello. Piano piano, però, si va in crescendo e si arriva alla parte centrale, dove la chitarra la fa da padrone e piazza delle pennellate a tinte forti. Un altro momento variegato di palpabile immediatezza.

”Ride to love” è una ballad robusta, contraddistinta da una sapiente trama chitarristica sulla quale si innesta un’ottima performance vocale di Luke, “grattata” e profonda quanto basta. Da sottolineare, anche qui, l’assolo centrale, di classica ispirazione hard rock, che affonda le radici nei fasti degli Eighties.
L’ouverture di ” Over the line” è tipicamente bluesy, con l’irruzione calibrata della slide guitar, sorretta da un’altrettanto equilibrata base ritmica di grande personalità. Questo episodio, che regala un ascolto alquanto godereccio agli amanti del genere, mette sul piatto un mix tra southern rock, country, melodic rock alla Bon Jovi, le cui componenti sono unite fra loro da una costante venatura blues che trasmette emozione fin dal primo ascolto. Viene spontaneo chiudere gli occhi e immaginare una tipica casa del Sud, tra prateria e piantagioni, immersa nel giallo di un tramonto, con il dondolo cigolante e un paio di stivali impolverati.
”Die for the Glory”, piuttosto trascinante in quanto ritmata e veloce, si muove agilmente in un’atmosfera smaccatamente southern, con reminescenze (modernizzate) a metà strada tra Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers, dai connotati precisi e marcati, con un sound robusto e miscelato ad arte.
”The good country side” offre un ulteriore coinvolgimento in ambito hard rock: possente e ben costruito, si regge su indovinati stacchi e virtuose schitarrate, con l’azzeccata ruvidezza delle linee vocali che fa da contrappunto alla morbidezza dei cori e agli acuti della chitarra.

”Sweet tears” comincia con un’ammiccante accoppiata voce – chitarra acustica, elemento distintivo delle ballad, ma successivamente assume una ricchezza e uno spessore sempre maggiore, grazie all’ingresso degli altri strumenti, compresa la lap steel guitar. Il solo centrale è di gran gusto, così come il refrain dai contenuti intimi e nostalgici, che lo rende, forse, il momento più struggente del disco. Le liriche sono in linea con l’indirizzo della canzone: “When the corn was corn and the rock was the rolling stones, when a friend was friend and the future was to become like superman: where is that child who wanted to live forever like in a fairytale? Because a dream is better. Where are the days made up with jam and butter? I’d like to come back but now it seems to me so far away”.

Con ”Country road” (versione riveduta e irrobustita dell’originale canzone di James Taylor) si accelera il ritmo, nel cammino degli Smokey Fingers lungo le strade diritte e roventi del Sud. Il pezzo è scandito da un riff sanguigno e intenso, ed è peraltro impreziosito da una convincente prova vocale di Luke.
”Crazy woman” è un’altra succulenta e piacevole fermata del tour bus degli Smokey Fingers sulle vie dell’Arizona, gradito a tutti i fans di questo filone musicale: sound ben curato, dosati interventi di slide e banjo, contrapposizione dinamica tra la pulizia dei cori e la timbrica volutamente graffiata e un po’ ruffiana del cantato di Luke.
In ” Devil’s song” l’apertura è molto dolce e sospirata, grazie alla presenza dello slide, qui in versione elettrificata. I suoi acuti, abbastanza discreti nell’intro, divengono sempre più incisivi e cattivi nel corso del brano, in un crescendo sostenuto e vigoroso.

Alla fine del nostro viaggio lungo la highway assolata resta la sensazione di aver ascoltato un ottimo album, di quelli che lasciano un’impronta nella memoria e, soprattutto, nello spirito, non solo degli appassionati del genere, ma di tutti i rockettari sensibili alla musica di qualità.
Il prodotto risulta, in effetti, dotato di tutte le caratteristiche per porsi come una bella sorpresa nel panorama attuale: immediatezza e spontaneità sono le carte vincenti di questa band, che palesa già – al suo primo vagito (o ruggito?) – una sua precisa identità e una spiccata personalità. Il disco evidenzia, infatti, un deciso carattere, una forma ben delineata: si poggia su una solida struttura che si rifà alla tradizione ma, nel contempo, non disdegna freschezza di toni e contenuti, mettendo in mostra un’ottima vena compositiva nel segno della continuità.

Detto della fatica di Luke & Co. in studio, speriamo di vedere presto questi frizzanti e sorprendenti Smokey Fingers sulle assi di parecchi palchi del nostro cosiddetto “belpaese”: ce n’è davvero bisogno.

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Tracklist:

01. Old Jack
02. The Lover
03. Chains of mind
04. Born to run
05. Ride to love
06. Over the line
07. Die for the Glory
08. The good country side
09. Sweet tears
10. Country road
11. Crazy woman
12. Devil’s song

Line up:

– Gianluca “Luke Paterniti – lead vocals
– Diego “Blef” Dragoni – guitars
– Fabrizio Costa – bass
– Daniele Vacchini – drums

 

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