Recensione: Come an Get It

Di Abbadon - 18 Luglio 2004 - 0:00
Come an Get It
Band: Whitesnake
Etichetta:
Genere:
Anno: 1981
Nazione:
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80

Nel 1981, un anno dopo quell’intermezzo che si concretizzò nello splendido “Live… In the Heart of the City”, per David Coverdale e i suoi Whitesnake era tempo di tornare a legittimare lo scettro di signori del Blues Rock, dopo i trionfi di “Lovehunter” e “Ready an’ Willing”. Il quintetto prova dunque a ripetersi con “Come an’ Get It”, che esce, come scritto prima, nell’aprile del 1981. L’uscita non è felicissima dal punto di vista della critica, che accusa quasi subito la cover, o meglio un suo particolare. Infatti, nella bocca del serpente raggomitolato ed imprigionato (per poco, basta vedere il retro del disco…) in una mela di cristallo, vi è una lingua che per nulla assomiglia a quella di un serpente classico, bensì ricorda una vagina, cosa che nei “puliti” primi anni 80 rappresentava un semi scandalo. David fu dunque accusato da più critici, grazie a questa pensata, di spronare i giovani verso il sesso con messaggi subliminali (la mela, per fare un altro esempio), accusa che non turbò il singer, che amante del gentil sesso era ed è sempre stato senza farne segreto alcuno. Tornando al disco, esso presenta un graduale indurimento del suono rispetto a quello dei suoi predecessori, mantenendo tuttavia quella blues verve che da sempre ti aspetti in un album dei Whitesnake e che sempre crea un feeling ed un’attrazione particolare. La band (in line-up Coverdale, Marsden, Moody, Murray, Lord, Paice) probabilmente non è ancora influenzata pesantemente dalle tensioni interne che porteranno, dopo Saints and Sinners, all’abbandono di Ian e Bernie, ed è in ottima forma, dimostrandolo in pieno con una massiccia dose di classe, ottime prestazioni del sestetto (direi soprattutto Jon e Neil, che forsè non nomierò più ma che col suo basso è fra i più costanti in assoluto) e gran gusto musicale (tranne forse nel finale di album, che secondo me paga pesante dazio rispetto ai primi due terzi). Le liriche sono fra le più esplicite e sfacciate (e ce ne vuole) fra quelle di Coverdale, quindi, salvo qualche caso, trattano di donne fin dall’opener, la titletrack, aperta da un fervido drumming, ritmo allo stato puro. Non velocissima ma elegante “Come and Get it” si distingue soprattutto per il riff festaiolo e un singer in gran forma, che trascina i compagni a parole ma anche con esclamazioni e improvvisazioni vocali colme di savoir faire.  Molto più esplosiva ma altrettanto dinamica (forse meno frizzante) la seconda “Hot Stuff”, una fiammata impreziosita da un grande Jon Lord nelle retrovie (e pure nel suo assolo) e da un Paice a tratti funambolo. Hot stuff rimane probabilmente la prima vera hit del disco e una delle più dure tracce del lotto qui proposto, veramente hot, come dice il titolo. Ancora fatale lo zampino dei due al tempo ex Deep Purple nell’attacco della gran “Don’t Break my heart again”, che non può non far andare su e  giù le teste degli ascoltatori. A dispetto del titolo non abbiamo una ballata bensì un mid tempo estremamente ben scandito, con le chitarre non protagoniste in assoluto ma abilissime a creare delle splendide rifiniture in più e più frangenti. Ed eccola la ballad, titolata “Lonely Days, Lonely Nights”. Essa si presenta subito sposata ad un sound pulitissimo, uno scorrere lento ma possente (soprattutto nel ritornello) e molto ben interpretato da un vocalist impeccabile, aiutato in maniera altrettanto efficace, in sede backing vocals, dai cosiddetti “The three Piece suite” (che altri non sono che lo stesso David, Bernie Marsden e Micky Moody). Non mi sento di definirla una purissima ballad, almeno nella sua prima parte, certò è che è la cosa più vicina a quel tipo di song che sia qui presente, per sublimarvi secondo chi scrive nel tratto centro-finale, bellissimo (per chi ama i lenti ovviamente). Bacco Tabacco e Venere! Sex, Drugs and Rock’Roll! Fate il mix di queste due storiche triadi per ottenere lo spirito della band quando componeva il quinto brano, sfacciatissimo e titolato non a caso “Wine, Women an’ Song”. Trattasi di una raffica di rock’n’roll, con apertura perfetta per un “club” (di quelli americani degli anni d’oro, che si vedono nei film), che fa saltare dalle sedie in un ballo dei più sfrenati. Il riff è ottimo, per non parlare del solo, ma è tutto l’insieme ad essere una miscela di vera e propria aria fresca, rigenerante. Delle raffiche di caldo vento ci portano nel cuore della canzone forse più unica del disco, “Child of Babylon”, un deciso cambio di rotta. Non musicalmente, intendiamoci, bensì come contenuti di lirica. Il pezzo non è il massimo, pur mantenendosi buono, ma è eseguito perfettamente e oserei dire in maniera molto sentita, cosa che percepisco (certo, ora sono anche un veggente) in alcuni tratti, quelli che mettono più in evidenza i due chitarristi. Si torna allo stile classico con la scanzonata “Would I lie to you”, buon mid tempo che ricorda molto da vicino la titletrack, pur senza raggiungerne a mio avviso le vette. Gli strumenti ed anche il cantato sono estremamente controllati, e forse una maggiore esuberanza del singer non avrebbe gustato, vabbè. Molto seducente l’attacco della sufficiente “Girl”, altro mid tempo che ha il pregio di attirare nonostante sia tutto fuorchè su di giri (anzi nel complesso è piuttosto piatto). Tutto si basa sulla perfetta intesa voce/basso, a cui la batteria dà una solida mano fino all’irrompere dei ritornelli, molto enfatizzati. Trattandosi di una delle song più deboli del disco risulta quasi stupefacente che riesca comunque a farsi ascoltare decentemente, tanto di cappello. E passiamo a “Hit an’ Run”, più brillante e sicuramente più riuscita, anche se ancora non tocchiamo i livelli eccellenti delle prime tracks. Gli strumenti sono anche qui ben miscelati, ma alla lunga la ripetitività è piuttosto evidente. Come avrete notato, praticametne nessuna traccia dalla 6 in poi ha eguagliato le prime dell’album, rimarcando una visibile separazione qualitativa tra le due metà del prodotto (come dissi in presentazione). A colmare parzialmente questo distacco ci pensa, come colpo di coda (essendo l’ultimo brano dell’album) la buona “Till the Day I Die”, caratterizzata per avere un tratto acustico di tutto rilievo nella sua prima parte, fattore che porta sicuramente un po’ di originalità. La song si perde un po’, pur rimanendo rimarchevole, quando si solidifica diventando rock in tutto e per tutto, ma non c’è comunque da lamentarsi. Peccato che “Come an’ get it”, tra polemiche varie, non sia stato un disco linearissimo in tutta la sua lunghezza (ilchè gioca al disco anche un pugno di voti sulla valutazione), perché altrimenti sarebbe stato, secondo chi scrive, un classico alla pari dei miei dischi favoriti del serpente bianco (i vari Slide it In, Saints and Sinners ecc…). C’è altresì da dire, in conclusione, che rimane sicuramente un ottimo prodotto, che i fan del genere ma anche i curiosi non dovrebbero ignorare.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Come an’ get it
2) Hot Stuff
3) Don’t Break my heart again
4) Lonely days, Lonely Nights
5) Wine, Women an’ Song
6) Child of Babylon
7) Would I Lie to You
8) Girl
9) Hit an’ Run
10) Till the day I die

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