Recensione: Come Ethereal Somberness

Di Daniele D'Adamo - 9 Giugno 2018 - 15:27
Come Ethereal Somberness
Band: Taphos
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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70

Dalla Danimarca arrivano i Taphos con il loro debut-album “Come Ethereal Somberness”, a suggello del successo – a livello di underground profondo – di due leggendari demo / EP: “Demo MMXVI”, 2016, ed “EP MMXVII”, 2017.

Il death metal del combo di Copenhagen è annoverabile nelle produzioni classiche, definibili death metal e basta. Senza caratteri né di evoluzione né di progressione da un sound manifestamente rodato nel corso degli anni. Sono presenti parecchie reminiscenze proveniente dai grandi gruppi degli anni novanta ma, perlomeno a parere di chi scrive, lo stile dei Nostri può benissimo essere considerato estraneo all’old school.

Per il resto, i Taphos macinano song violentissime, stravolte dalla furia dei blast-beats, trainate per la gola dal folle growling di H, spaventoso assalto all’arma bianca alla giugulare dei tanto coraggiosi quanto malcapitati ascoltatori (‘Thrive in Upheaval’). Il mood dipinto sul buio muraglione di suono eretto dalle furibonde chitarre di M e D è claustrofobico, asfissiante, malsano. Come se il suo flavour provenisse da caverne abissali, mai viste da occhio umano, reconditi anfratti per terrificanti creature dell’Altro Mondo. Gli assoli sembrano trafiggere la carni di tali esseri, alimentando il senso di vecchio, di stantio, di arcaico che erutta dall’insieme dei nove brani che compongono il platter.

Com’è intuibile dalla breve disanima di cui sopra, non c’è da aspettarsi l’arrivo di improvvise aperture né melodiche né dissonanti, dal coagulo sonoro miscelato nel sangue da H e compagni. Il sound è caratterizzato da un’infinita serie di accordi putrescenti che non trovano mai pace, instillando nelle orecchie la sensazione di un pericolo imminente, mortale, di qualcosa che striscia nell’ombra ma che non si riesce a delineare nella sua forma esteriore.

Al solito, occorre ascoltare approfonditamente le varie canzoni per avere un’idea della capacità di scrittura di un dato ensemble. In questo caso emerge una notevole abilità nel rimanere nei binari di uno stile com’è detto non originale tuttavia adulto e perfettamente formato, identificativo – in maniera piuttosto agevole – del trio danese. Le song presentano un forte legame reciproco, differenziandosi fra loro sufficientemente sì da regalare un po’ di longevità a un’opera che, per definizione, tende a privilegiare il sound rispetto ai pezzi.

Del resto, l’unico obiettivo dei Taphos pare essere quello di pestare il più forte possibile, lacerando la barriera del suono con un drumming convulso, spietato, velocissimo. In tali condizioni, è ovvio che i singoli episodi presentino la tendenza a somigliarsi l’un l’altro e così è, ma comunque – come già detto – la composizione riesce a sollevare, seppure con fatica, un lotto di tracce discernibili e coerenti sia verso lo stile sia in relazione alla necessaria univocità della composizione medesima.

Un più che discreto album di esordio, quindi, interessante per uno stile davvero annichilente ma ancora piuttosto acerbo quando deve sobbarcarsi l’onere di costruire i vari segmenti che, da ‘Letum’, portano a ‘Obitum’.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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