Recensione: Coming for Your Soul
Gruppo un po’ diverso dal solito, questi Curse Of Denial – peraltro piuttosto noti in patria. Il perché è presto detto poiché salta subito all’occhio, pardon all’orecchio, sin dall’opener-track ‘Intro – A Passage to Madness’, la manifestazione uditiva di uno stile caleidoscopico, in cui si possono osservare colori e forme diverse quali il death, il black, il thrash, il doom e… l’heavy metal. Non manca praticamente quasi niente, del verbo metallico, cioè.
“Coming for Your Soul” è il secondo full-length di una carriera cominciata nel 2016 e che ha già visto stampare nel 2017 il debut-album, “The 13th Sign”. Poche storie, insomma, e niente produzione minore da utilizzarsi quale allenamento per raggiungere gli standard tecnico-artistichie di quelle professionali.
Tant’è vero che il quartetto di Cleveland mostra di aver raggiunto un livello di coesione e sicurezza più che sufficiente per un disco destinato a fare il giro del Mondo, sebbene attraverso i bui canali dell’underground.
Il sound di “Coming for Your Soul” è terribilmente massiccio, pesante, alimentato dalla chitarra sputa-riff di Jeremy McClellon, dal basso roboante di Michael Perez e dal drumming multiforme di Shawn Hapney, questi in grado di passare con noncuranza da ritmi tipo doom a terrificanti bordate di blast-beats. Su un muraglione di suono simile disegna le sue linee vocali Rob Molzan, pur’esso aduso a modificare il proprio stile vocale, andando dal growling allo screaming passando per le clean vocals tipiche dell’heavy.
Detto questo, ciò che avrebbe potuto essere non è stato.
Per essere stato plasmato con materiali così diversi, “Coming for Your Soul” avrebbe potuto fissare un nuovo modo di affrontare il death metal, perché alla fine di questo si tratta. Death metal complesso, articolato, contenente, pure, qualche passaggio progressivo si da renderlo vicino, per definizione, al technical death metal. Ma sempre death metal.
Sono parecchie, infatti, le song che mostrano un’anima complicata, per nulla lineare, ricca di elementi che tendono a portarla in direzione di uno stacco evoluzionista che, invece, non c’è. Non c’è poiché, a parere di chi scrive, i Curse Of Denial si sono clamorosamente ingarbugliati da soli.
I brani, bene o male giudici finali per capire se un platter sia buono oppure no, non hanno capo né coda. Lembi che non si riescono a trovare nemmeno dopo reiterati e testardi passaggi degli *.mp3 nel lettore multimediale. Presi a uno a uno possono avere un senso, dato atto che ciascuno è denso di accidenti musicali, di reiterati cambi di tempo, di intrusioni melodiche. Tanta, tantissima musica, insomma. Il che non sarebbe un delitto se non fosse che, messe assieme, al contrario, le tracce dell’album vadano ciascuna per conto proprio. In un disordine simile a quello del caos. Probabilmente non è così: a pelle si ha la sensazione che il tutto si stato ben studiato a tavolino. Ma, una volta raggiunti gli orecchi, il tutto pare disordinato, privo di un filo conduttore, abbandonato a se stesso.
Con che, puntuale come la morte, la noia piomba sul lavoro, a questo punto esempio come non si debbano comporre i brani e soprattutto la loro successione temporale anche se, in testa – magari – qualche buona idea c’è. Malgrado l’evidente impegno dei volonterosi Curse Of Denial, tirando le somme non può che esserci l’insufficienza, per “Coming for Your Soul”.
Daniele “dani66” D’Adamo