Recensione: Common Ground
Nati nel lontano 1990 (e reinventatisi nel 2009), i Big Big Train sono ormai una realtà consolidata a livello internazionale e ogni loro nuova uscita è salutata con entusiasmo dalla platea prog. di tutto il mondo. Il precedente Grand Tour ha raggiunto, infatti, la posizione numero uno dell’Official UK rock charts e il tour del 2019 si è concluso in modo sontuoso al London’s Hackney Empire, concerto registrato in blue-ray. Con la pandemia ancora in corso la band cosmopolita – due inglesi, un americano e uno svedese attualmente in line-up – decide di cavalcare il momento con un album autoprodotto dalla tracklist asciutta ma ricca di pezzi articolati. L’artwork di Common Ground nella sua immediatezza è un invito alla solidarietà globale e i testi affrontano sia argomenti storici (in questo la band eccelle), sia momenti legati all’attualità, soprattutto il lungo lockdown vissuto in Inghilterra negli scorsi mesi. Le influenze sonore messe in campo sono come sempre delle più variegate: non mancano i mostri sacri Genesis, Yes e Caravan, ma si possono menzionare anche nomi quali Pete Townshend, Tears For Fears, Elton John e XTC. Il valore aggiunto del gruppo anglosassone è la maestria con cui riesce a trovare una sintesi ottimale all’interno di un simile labirinto sonoro intessuto di reminiscenze illustri. Questo aspetto, inoltre, conferisce maggiore longevità ai brani proposti, che si lasciano riascoltare volentieri mostrando ogni volta dettagli nuovi.
Il disco si apre con le note piacevolissime di “The Strangest Times”, che sembrano dipingere un panorama assolato visto dai finestrini di un’auto in corsa. La voce di David Longdon è la quintessenza del neo-prog. inglese, i sintetizzatori e il pianoforte sono impiegati in modo sapiente, mentre per quanto riguarda la base ritmica Nick D’Virgilio non si esime dal proporre alcune dei suoi fill inconfondibili. La composizione parla dell’impatto del COVID-19 sulla popolazione inglese e lo fa in modo poetico, con una resa sonora soave e accurata che include anche le backing vocals di Carly Bryant. Un opener bellissimo, che fotografa un gruppo in perfetto stato di forma, non poteva esserci avvio migliore. “All The Love That We Can Give” inizia su toni più circospetti e teatrali, con una voce baritonale accompagnata da ritmiche sincopate. Il pezzo dura otto minuti e riesce a decollare cambiando pelle quando D’Virgilio al microfono ci riporta ai tempi di album come Feel Euphoria e Octane degli Spock’s Beard. I BBT non perdono l’abitudine di sperimentare e di valorizzare l’eclettismo del loro batterista e fanno bene. Non male nemmeno la sezione strumentale a metà brano che merita più di un ascolto attento.
Vengono coinvolte più voci in “Black With Ink”, in un’alternanza ben bilanciata che richiama i cugini Transatlantic, ma con l’aggiunta di una componente femminile. Il brano parla della biblioteca di Alessandria d’Egitto, i cui preziosi tesori vennero distrutti da un incendio ma che ci ha regalato comunque la storia della sua gloriosa esistenza. Le battute strumentali, come sempre incastonate al centro del pezzo, sono divertenti da suonare tanto quanto all’orecchio dell’ascoltatore navigato e regalano un ventaglio flamboyant di sintetizzatori. In sostanza, siamo di fronte a un brano cucito su misura per il tema trattato, tra nostalgia e grandiosità. “Dandelion Clock” è una song dal minutaggio contenuto ma refrigerante, con un ottimo arrangiamento acustico e qualche rimando agli Yes più cullanti. Dopo “Headwaters”, un intermezzo atmosferico per solo pianoforte, la strumentale “Apollo” stupisce invece con il suo incedere camaleontico, con tanto di flauto traverso e la presenza di un brass ensemble che dà ricercatezza al sound dei BBT, i quali a tratti si avvicinano alla scena di Canterbury ma in un’ottica rinnovata.
Gli ultimi tre brani coprono l’ultima mezzora circa del disco. La title-track ripropone la solita ricerca melodica dei nostri, affiancata a una cura attenta delle dinamiche, incluse quelle di violino: tutto scorre con le dovute smussature e quando ci s’imbatte in note più spigolose l’effetto è voluto e d’impatto. L’unica vera suite in scaletta è la successiva “Atlantic Cable”, un tuffo nell’oceano lungo 15 minuti che vale da solo l’acquisto del platter. I testi parlano della posa del primo cavo telegrafico sottomarino della storia, argomento trattato anche in un testo di Stefan Zweig. In pochi istanti si passa dall’atmosfera idilliaca dipinta da note di flauto a un ritmo quadrato scandito dal rullante di D’Virgilio, per poi ritornare su lidi onirici con una breve parte a cappella… e non siamo che a metà suite! Nelle restanti sezioni la band inglese riesce a portare avanti con lucidità e ispirazione un discorso musicale raffinato e al contempo conseguente, regalando emozioni pure. Difficile stare al passo con i continui cambi di tempo proposti, l’ingresso degli strumenti chiamati in causa nei momenti solistici è sempre una sorpresa e afferrare subito i vari rimandi a prog. band del passato richiede una memoria non indifferente. Si può dire insomma che “Atlantic Cable” è percorsa da autentica ispirazione, in sede live sarà uno spettacolo. Come epilogo “Endnotes” è il brano al posto giusto al momento giusto. I ritmi si fanno dilatati e le armonie ariose e visionarie; la presenza degli ottoni per un attimo richiama il genio di Trent Gardner. Una classica chiusura per un fisco prog. ottimamente concepito.
Nient’altro d’aggiungere, Common Ground conferma quanto di buono composto dai Big Big Train in Grand Tour. La band resta su livelli d’eccellenza, anche a livello di produzione, e continua la sua carriera senza segni di cedimento. All’album seguirà se tutto va bene un tour, forse il più ambizioso mai intrapreso dai BBT, tra USA e Inghilterra. Speriamo di poterli vedere anche in Italia in un futuro non troppo lontano.