Recensione: Compromise
Michael Monroe, Fergie Frederiksen ed ora anche David Reece: sembra che il ritorno delle celebrità del passato non sia concluso, quasi a ricordare ai nuovi contendenti che la sfida è ancora aperta…
Il buon Reece, con un passato negli Accept (“Eat The Heat”) e un radioso proseguo nei Bangalore Choir (“On Target”), sembrava aver definitivamente chiuso con il rock, una forte disillusione alimentata dal grunge che spadroneggiava nei primi anni novanta.
Tuttavia, si sa, il fascino della musica dura è irresistibile e il biondo singer non è insensibile al suo richiamo: tornato alla ribalta con sorpresa di tutti, addetti ai lavori e non, pubblica “Another World” (2008), acclamato album dei Gipsy Rose.
Di questo inaspettato ritorno, hanno dovuto ricredersi non solo i fan di lunga data ma pure la stampa, che, in “Compromise”, ritrova Reece forte di un pattern affiatato, grazie anche alla preziosa collaborazione di Jack Frost (Savatage, Metallium) e del tastierista Paul Morris (Rainbow, Doro).
Al mixer un’accoppiata inusuale ma vincente: l’ormai onnipresente producer Martin Kronlund (Gipsy Rose, Amaze Me) e il “redivivo” Joey Vera, bassista degli Armored Saint, con una significativa esperienza nei Fates Warning (“A Pleasant Shade Of Gray”) e svariate collaborazioni (tra cui Anthrax e Lizzy Borden).
“Compromise” è l’essenza dello spirito hard rock che mai vacilla e “Disaster” ne è la prova: un inseguimento adrenalinico, un refrain immediatamente memorizzabile colpiscono l’audience senza lasciargli scampo; lo stacco sembra placare lo slancio della chitarra ma è un’illusione che dura pochi istanti: gli assolo elettrizzanti si concatenano nel climax crescente, coinvolgendo tutto il dinamismo della vecchia scuola hard’n’roll.
Reece non arretra e incide nella mente dell’ascoltatore l’inno di “End Of It All”: un incalzare ritmico solcato da impennate fulminee e arricchito dal guitar session che cresce e matura nel duetto delle chitarre gemelle.
Ancora velocità e adrenalina con “Fortunate Son” ma questa volta l’apertura è un tributo all’hard blues più spinto: drummer in rilievo, ritornello insistito e scorci rallentati, dove le chitarre distorcono la linea melodica divincolandosi, fondendosi e mutando di nuovo nel footstomp, energico e cadenzato, che costituisce il motivo portante.
Dopo questa folle corsa, è ora di concederci un momento di poesia: ed ecco che “Someone Beautiful” si apre sulle dolci note delle tastiere e dell’arpeggio delicato, mentre la voce intensa, quasi sforzata di Reece conduce il cordoglio per consegnarci un genuina ballad, apprezzabile più per il doppio della chitarra acustica (un’aggiunta degna di una serata unplugged).
Questo momento d’estasi (forse un po’ manieristico) è solo una breve parentesi prima di tornare a sfogarci con l’impatto di “Along For The Ride”, “Coast to Coast” e “All Roads Lead To War”.
Duro e minaccioso l’incalzare della chitarra stradaiola di “Along For The Ride”, song compatta che si permette una breve progressione alla Def Leppard e un refrain di chitarre sullo sfondo, per mordere nel finale con l’impact definitivo, dove Frost unisce tecnicismo e sentimento, infondendo l’enfasi degli idoli immortali della NWOBHM (Iron Maiden e Saxon su tutti).
“Coast to Coast” non demorde e aggiunge ulteriore velocità ed impeto al platter, lanciandosi in una fuga selvaggia mentre i synts (rigorosamente seventies) aleggiano nel sottofondo; Reece grintoso “morde” come solo Ian Gillan sa fare, sia nelle parti più frenetiche (la ritmica principale), che nelle parti cadenzate (il ritornello roccioso). Il resto è poco più che ispirata routine per la sei corde, prima solista, poi in accoppiata ed, infine, di nuovo affilata e emozionale in solitario.
Il ritornello di “All Roads Lead To War” è aspro e battagliero (come proclama il titolo della canzone), richiamando alla mente inossidabili paladini del metallo (Manowar) ed eroi dimenticati (Tokyo Blade, Avenger UK). Completano il quadro una batteria insistente e un’escursione chitarristica incisiva, che riportano in vita il vecchio, graffiante classic metal.
Il guitar work è l’ennesima, rovente testimonianza del passato personale di Reece (Accept) e dell’inflessione heavy che caratterizzava le bands britanniche.
Un’improvvisa virata del sound e “Where My Heart Belongs” acquista un retrogusto americano, con un prechorus chitarristico interessante, che confluisce nel ritornello sostenuto dai backing vocals. Brilla su tutto la sessione solista della sei corde, arricchita da vibrati enfatici e dal trasporto che può conferire il coro delle doppie asce. Nel finale, una sorpresa: l’acustica ha il sopravvento e l’arpeggio, assieme ai suoni evanescenti della tastiere, ci lascia con un triste e malinconico commiato.
Prima di “scatenarci” con altro heavy rock, cosa c’è di meglio del delicato pianoforte di “Everything To Everyone”? I tasti si fondono con l’accompagnamento delicato dell’acustica e, allorché la ritmica diventa più vivace, si instaura un’intesa perfetta con la voce di Reece, che si rinvigorisce e urla con passione le parole del testo; segue un vibrato gemente ma non altisonante nel cuore della song. Piacevole l’inserto tastieristico dal sapore vintage nel mezzo della composizione, uno stacco d’atmosfera perfetto per sostituire i leggeri tasti del pianoforte che, di tanto in tanto, fanno capolino mentre la canzone fluisce.
Il gran finale è riservato a “Evil Never Dies” e “Treasure Hunter”.
“Evil Never Dies” è marchiata da brevi, plumbei riff imbevuti dei Black Sabbath. Quando la ritmica è più veloce Frost distorce, avviluppa i suoni della chitarra, per poi rileggere, ancora una volta, la lezione di Tony Iommi e compagni, disegnando suoni scuri, gravi, con fraseggi “pesanti” e rallentati.
Il rombo delle chitarre è il suono della strada, il suono di “Treasure Hunter”, l’ambiente ideale per David dove dare sfogo al lato che gli è più congeniale: solido, sanguigno, hard’n’heavy, che sospinge e incalza, solcato solo da vibrati alti e acuti, dove l’inflessione street e il rock formano il cemento su cui Reece avanza con voce aspra e irrefrenabile.
In definitiva, “Compromise” è una prova genuina e sincera, che sfoggia pezzi efficaci (fra tutti “Disaster”), propone ballads di piacevole ascolto e alterna episodi più duri e tradizionali a qualche ascolto, per così dire, american friendly (e non poteva essere diversamente viste le origini del protagonista).
Che cosa ci riserverà David in futuro? Questo ovviamente non lo possiamo sapere, ma, nel frattempo, non ci stupirebbe il ritorno di qualche altro nostro, vecchio idolo…
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