Recensione: Concrete
A volte, per bizzarre coincidenze del destino, certe opere non vedono mai la luce nel momento del loro reale concepimento.
La vita che a loro doveva esser donata viene data in un secondo momento, di ridotto splendore per giunta, quando un ensemble così influente si ritrovò ormai alla (allora prevista) fine dei suoi giorni.
Per i Fear Factory, allora in momentaneo scioglimento dopo la decisione dell’abbandono del leader maximo Dino Cazares, le cose sono andate così o meglio, loro stessi hanno a lor stesso malgrado deciso di farle andare in questo modo, giocando le carte del loro stesso destino discografico.
Tante poetiche parole solo per introdurre il concetto che “Concrete”, uscito nel 2002, sarebbe dovuto essere a tutti gli effetti il primo album dei Fear Factory e non un mero riempitivo postumo di una carriera allora creduta agli sgoccioli: ma un contratto migliore con relativa possibilità di produzione migliore e, forse, anche una manciata di idee in più, diedero la luce a “Soul of a New Machine”, vero esordio ufficiale di Cazares & compagni.
Questo “Concrete” rimase isolato in un cassetto costretto a prendere la polvere, quasi come fosse una vergogna, un master tape di cui nessuno avrebbe mai dovuto conoscere l’esistenza: ma la realtà dei fatti è che, forse causa di dissidi con il produttore Ross Robinson, questo disco venne scartato proprio pervia di questi stessi dissidi; vennero quindi ripresi alcuni pezzi, ri-registrati con una produzione di migliore qualità e un maggior numero di spunti personali….così da lì in poi la storia prese le pieghe che poi conosciamo.
Aldilà di tutto questo, “Concrete” ci pone numerosi interrogativi all’ascolto, precisamente riguardo le vere evoluzioni rispetto alla carriera che oggi tutti conoscono: “Soul of a New Machine” è stato una tappa fondamentale, addirittura da molti preferito rispetto al capolavoro “Demanufacture”, ma lo stile e la produzione prendeva linee abbastanza diverse da quelle grezzissime di questo “Concrete”.
I binari su cui andremo a viaggiare, infatti, sono assai più vicini al grind-death (di matrice Napalm Death soprattutto, influenza ancora più evidente rispetto all’esordio che ne sarebbe poi scaturito) che non al crossover electro-metal che sarebbe stato forgiato solo poco tempo più in là. La produzione è rozza, essenziale, ancor più ridotta all’osso rispetto a quella di un buon album death metal anni ’90 e le incursioni cyber-futuristiche, vero e proprio trademark della band, sono qui ridotte all’osso ed in versione molto abbozzata, sebbene mettano comunque addosso una certa inquietudine in questa veste grigia e minimale….
“Concrete” non propone altro che il gene seminale (arricchendo la versione originale di moltissime tracce demo ed inedite incluse nella tracklist regolare) di quello che sarebbero poi stati la Fabbrica della Paura: ci ritroviamo dinanzi un ensemble con particolarità ancora acerbe sebbene già allora vincenti, sebbene con ampie possibilità di sviluppo (che sarebbero arrivate da lì a poco) e l’iniziale “Big God/Raped Souls” è la perfetta opener di questa sarabanda a tinte grezze, in quanto compaiono le prime parti cantate (unico pezzo in cui le parti vocali sono affidate in toto ad un certo Dave Gibney) che rimandano ad un mondo arcano e futuristico, ma che in questa veste, specie se riviste col senno di poi, fanno anche un po’ sorridere, sebbene rimangano comunque apprezzabili.
Ecco il vero “difetto” di questo “Concrete” ma che appunto tanto difetto non è: il suo essere più che altro un museo di quel che è stato e che poi non è mai esistito, prediligendo altre forme; basti pensare al riff chitarristico di “Echoes of Innocence” che verrà poi ripreso in chiave synth-elettronica su “A Therapy for Pain” (brano finale del capolavoro “Demanufacture”, uno dei simboli del metal anni ‘90) ma non solo, perché ci sono innumerevoli citazioni e riff all’interno di ogni singolo processo del disco, che ritroveremo sparsi più o meno a caso in brani poi realizzati dal combo nelle sue fasi successive.
“Concrete” vive di luce riflessa dal futuro, cosa che sembra quasi ironica date le tematiche della band, quindi l’unica cosa da fare è cercare, per quanto sia possibile, di dimenticare per tutta la durata del disco quello che i Fear Factory hanno poi realizzato e lasciarsi andare dalle note grezze di questo platter inizialmente estromesso al suo stesso destino: sebbene in vesti maggiormente grind-oriented, questa Fabbrica fa comunque Paura (scusatemi il gioco di parole involontario) e le note contenute nel platter suonano grigie e catastrofiche come quella costruzione industriale ritratta in copertina.
Il fascino primordiale di questa opera recuperata è comunque innegabile, perché oltre ad essere spaventosamente valida di per sé, ci mostra sia un lato inedito del songwriting della premiata ditta Cazares & Bell, fatto di death old-school misto ad accelerazioni grind repentine (con tanto di voce distorta, nel pieno spirito grind/hardcore di quelli anni) e campionamenti , più rare incursioni di synth/pad.
Alcuni episodi anomali poi risultano particolarmente graditi, come ad esempio “Deception”, un autentico esempio di grind assassino come pochi della durata di soli 30 secondi, assieme alla successiva, sorprendente, “Desecrate”, ricca di soluzioni che all’ascolto farebbero la gioia anche dei più puristi del death metal (tipicamente gente che ha sempre snobbato la formazione americana con la scusa di essere commerciale), senza contare la conclusiva “Ulceration”, vale a dire il testamento finale di una band che, fino al 1989, di chiamava proprio così ed il monicker Fear Factory fu adattato solo a partire dell’anno successivo.
Nella tracklist vi è presente anche una “Piss Christ” che con la semi-omonima traccia di “Demanufacture” condivide solo il titolo….
Insomma, tra questa e tante altre piccole curiosità “Concrete” non è un’opera per tutti, ma vanta comunque, come già accennato, un fascino innegabile nel suo mostrare le vere origini da cui tutto ha preso piede ed esporle, senza remore, anche alla corte di un pubblico come già accennato fino ad allora troppo restio a digerire la proposta modernissima del combo, combo che in realtà come pochi altri ha segnato la storia del metallo anni ’90 plasmandolo al volere di anomale unità cibernetiche abitanti le menti dei propri componenti.
Tali visioni poi presero pieghe sempre più melodicamente inquietanti, ma anche il volto plumbeo ed assassino di “Concrete” non scherza mica.
Da rivalutare.