Recensione: Conduit
Cinque canzoni per quaranta minuti (circa) di musica.
Nessun ritornello di nota, o orecchiabile, che si stampi fin da subito nel cervello, nessuna prevedibilità o filo conduttore costante per tutta la durata delle canzoni che, anzi, in certi casi vengono spezzate al loro interno per essere poi reinventate secondo una nuova, e totalmente differente, formula.
Le uniche due cose costanti per tutto lo svolgersi di questo lungo, ed affascinante “Conduits”, sono la sezione ritmica pesante come un macigno, drammatica e di scuola assolutamente Candlemass/Black Sabbath, e la voce del cantante, Antony “Trim” Trimming, così versatile, calda e ispirata che da sola, nei momenti più complessi ed arzigogolati del lavoro, riesce a donare quell’aurea epica e lirica, dalle tinte fortemente brumose, che è la formula percorsa da questa band inglese per tenere alto il livello e lasciare che l’ascoltatore venga assorbito completamente dalla loro musica.
Tutto qui è pervaso da una sorta di velo impalpabile ed invisibile, che inizia al principio di “Flight of the Deviants” (primo episodio), e termina con l’ultima nota dell’ultima, e più aggressiva del lotto, “Sanguine Path”.
Senza interruzioni e senza cali, è davvero incredibile con quanta facilità i King Goat riescano nella, per nulla semplice, loro proposta che nella complessità trova la propria chiave interpretativa, supportata per giunta da un solido tappeto ritmico che pesca un po’ da tutte le parti senza snaturare se stesso, dato in molteplici sfaccettature che possono disorientare al primo colpo, ma che lasciano certamente il segno, se non ci si ferma ai primi ascolti.
Va da sé, comunque, che questo sia un disco per nulla “semplice” e che non tenta nemmeno lontanamente di apparire tale: il suo valore, però, è proprio quello, che lo porta, poi, ad essere amato e riascoltato tante e tante volte; tutte quelle occorrenti per declinare un aspetto mutevole e camaleontico piuttosto che un altro che, personalmente, ho molto apprezzato, e la cui sintesi viene eccellentemente descritta in un brano come “Revenants”, in cui la prova vocale di Trim forse raggiunge le punte più avanzate di lirismo, epicità ed espressività, elementi, questi, già a livelli vertiginosi nei rimanenti episodi.
“Revenants” però, è un’altra cosa, fatemelo dire: fa parte di quella categoria di canzoni che ti chiedi come mai non hai compreso appieno al primo momento, maledicendo i primi distratti ascolti che non te l’hanno fatta apprezzare e, invece, in cuffia, isolato da tutto, ti prende per mano e ti porta lungo un cammino irto di rovi e di selci d’onice taglienti, da dove però si gode di un panorama toccante, drammatico, oscuro e prezioso, che ti fa desiderare sempre più di continuare nell’esperienza di proseguimento, sperando che le note si dilatino nel tempo, tali, così, da renderlo interminabile.
Poche band hanno questo talento e la stoffa necessaria per rendere la musica un’entità viva e che possa essere percepita tale da chi la ascolta.
Chi ama l’Heavy Metal tutto sa bene di quel che parlo, proprio perché noi (in generale, intesi come estimatori di questa musica), sappiamo ben cogliere quell’intimo, fugace palpitare che fa capolino tra le note, che ci dona qualcosa che facciamo nostro, che nostro rimane e che ci rende felici.
Ecco. I King Goat mi fanno quest’effetto, beninteso mi capiate.
Ho parlato solo di una canzone in particolare per tutta la recensione, nessuno me ne voglia, come si è visto, ma non perché le altre siano da buttare, ci mancherebbe altro!
Ribadisco che il livello compositivo di questi ragazzi è molto alto e ricercato; ho voluto scriverne proprio perché, a mio modesto vedere, di strada sono quasi certo ne faranno (e molta), anche se non potranno, proprio per le loro “nobili” e argute scelte, ben essere compresi (e dunque apprezzati) da tutti: sono certo, infatti, che molti li etichetteranno come ennesimi cloni dei Candlemass, proprio per i punti di contatto tra il cantato di Antony Trimming con quello di Messiah Marcolin, ma non importa: tenere l’attenzione viva in un album di Doom di scuola classica per giunta con chiare e graffianti influenze Progressive, seppur servendosi di talmente tanti strumenti variegati da risultare a tratti spiazzante, non è un evento che accada facilmente. Specialmente se si pensa che il genere stesso, per quanto possa essere dagli amanti apprezzato, ha già dato molto nella sua lunga storia e, grazie per giunta a band che sono entrate nell’Olimpo delle leggende (alcune), o che influenzano, anche indirettamente, tutte le altre, è quindi difficile non rientrare nel recinto del “già sentito”.
I King Goat, forse, non saranno l’eccezione. Dalla loro però hanno una spettacolare e portentosa dose di talento a loro supporto, che li distingue dai prodotti, più o meno buoni, che si ascoltano continuamente.
Da ascoltare più e più volte, questo “Conduit”, “sparato” in cuffia, e ognuno ne prenda il pezzo ad egli più intimo e congeniale, perché sicuramente lo troverà.
Francesco “Caleb” Papaleo