Recensione: Connections
Un encomio sincero ai The Brain Washing Machine, manipolo di coraggiosi cultori di sonorità ardite come quelle dello stoner più arcigno e martellante, apprezzati quattro anni fa in occasione dell’uscita del debut “Seven Years later” e poi persi completamente di vista, svaniti con un carico di buone aspettative soffocate da un prolungato silenzio.
Un encomio per la perseveranza anzitutto, proprio perché sarebbe stato un peccato dilapidare una bella dose di talento come quella messa in mostra sin dall’esordio, artefice di un suono corposo, ben strutturato, a tratti visionario, duro come la pietra ed acceso come una soleggiata landa desertica.
Come sia possibile un così forte radicamento degli stilemi stoner nell’area che si dipana tra le province di Padova, Vicenza e la parte più a nord della Romagna rimarrà per sempre un mistero dai tratti quasi insondabili. Fatto è che i The Brain Washing Machine – giust’appunto padovani – confezionano anche in questi frangenti una piccola perla di espressività tutta a stelle e strisce, prendendo ennesimi spunti dagli immancabili Kyuss, Clutch e Fu Manchu, cui vanno ad aggiungersi alcuni accenti che personalmente ci hanno rimembrato le atmosfere plumbee e grevi degli svedesi Mustasch ed un gusto per i ritornelli che guarda un po’ agli Alter Bridge.
Un vorticare di chitarre ribassate, ritmiche ipnotiche ed immagini che al solito rimandano a territori che hanno ben poco di “nostrano”, prediligendo una forma di linguaggio dalla radice profondamente american style, nell’incedere corpulento e nella veemenza di uno stile intenso ed incalzante.
Dieci tracce nemmeno troppo lunghe sono più che sufficienti nel testimoniare la bontà di un progetto che poggia su basi solide e tutt’altro che polverose, oltretutto prodotte in maniera egregia ed ammantate da una qualità di confezione ed arrangiamento da alto professionismo.
Le parti in cui i The Brain Washing Machine si fanno preferire sono quelle in cui le componenti melodiche ed oscure sono un pizzico più accentuate: “Restless Night” e “Feel Inside” spiccano, ponendosi all’apice di un album che merita concretamente una possibilità all’attenzione di chi si possa in qualche modo definire affascinato dagli stilemi sin qui descritti.
Ciò non significa d’altronde, che i momenti di maggior tiro siano di minor efficacia: l’opener “The Brain Washing Machine” e la potente title track mettono in chiaro come pure su toni roventi il risultato sia piuttosto notevole.
Songwriting robusto e cocciuto, tecnica strumentale perfettamente calibrata sul genere (quindi nessun virtuosismo fine a se stesso ma piuttosto molta sostanza) ed una piacevole veste grafica ricalcano per sommi capi i contorni di un disco – “Connections” – effettivamente di buon livello, ennesima piccola “gemma del deserto” prodotta dall’ineffabile movimento stoner rock di casa nostra.
L’auspicio a questo punto, è che non servano altri quattro anni pieni per un nuovo capitolo discografico…