Recensione: Consequences of failure
Dopo mesi e mesi di estenuanti ricerche condite da vane promesse da parte di svariati distributori nostrani, come se certi cd arrivassero da Marte, riesco finalmente a mettere le mani sul nuovo platter dei grandissimi Skullview, di sicuro una delle poche band americane d’oggigiorno in grado di rinverdire i fasti passati per mezzo di un sound ed un’attitudine diciamo molto old fashioned. Formatisi nel lontano 1995, ovvero in uno dei periodi più bui che in il classic metal americano abbia mai passato, il quintetto guidato dal chitarrista Dean Tavernier, è riuscito, disco dopo disco, a crearsi una rispettabilissima fama underground, grazie soprattutto ad un trittico di albums che hanno fatto la gioia di chi, come il sottoscritto, ha sempre seguito fervidamente la scena power d’oltreoceano.
Così, con immenso piacere posso nuovamente constatare che i nostri sono riusciti nel non facile compito di consegnare alla storia un altro piccolo capolavoro che superando, qualitativamente parlando, il già ottimo “King of the universe” di qualche anno fa. A grande sorpresa il nuovo “Consequence of failure” vede il ritorno fra le fila della band del carismatico vocalist “Earthquake” Quimby Lewis, fuoriuscito dopo la pubblicazione del suddetto “King…”, per problemi caratteriali si disse allora, e ritornato giusto in tempo per dare il suo apporto in fase compositiva e di songwrating di un album che, senza il suo proverbiale tocco, sicuramente non avrebbe mai visto la luce.
Contornato dalla solita splendida cover dell’amico Kris Verwimp, l’ album in questione si compone di dieci succulenti tracce innestate su di un granitico power metal dalle forti tinte epico/oscure e che pesca a piene mani dalla lunga tradizione americana degli eighties, e dal repertorio di bands come i sottovalutati Attakker, Manilla Road e Liege Lord. Davvero impressionante il muro sonoro eretto dal combo statunitense, con la coppia di chitarristi che si prodigano nel produrre, in maniera quasi cinica, un numero impressionante di riffs devoti al più scatenato pogo di massa, coadiuvati da una grande sezione ritmica stile “macina sassi”, sulle quali si scagliano con violenza inaudita, le screaming vocals dell’ottimo “Earthquake” Quimby Lewis che in più d’una occasione si dimostra degno erede del maestro Tim Baker (Cirith Ungol).
Difficile resistere ad una colata di metallo incandescente di questa portata, e per capire quanto la band possa osare e soprattutto dove vuole arivare, basta ascoltare l’accoppiata iniziale “Time for violence/Skullview”, una vera mazzata sulle gengive due brani dall’incedere impetuoso ed incalzante, con la band che ci travolge sotto le pale di un rullo compressore. Brani dello spessore di “Armed with an axe” o “Seek the old man for knowledge”, basterebbero solo i titoli per farvi comprendere di che pasta sono fatti i nostri, vi toglieranno letteralmente il respiro con la loro carica dirompente e quasi selvaggia, che mostrano una band ruvida ed aggressiva, lontana anni luce dalle ricercatezze finto sinfoniche che vanno di moda oggi.
Un album che non concede nulla al facile ascolto basandosi su un continuo attacco sonoro, e così con “Wrath of the sorcerer” o “Leviticus” gli Skulliview ci sparano in pieno volto tutta la loro rabbia repressa, rendendosi artefici di una prova musicale maiuscola che, per attitudine ed abilità compositiva, riesce a ridicolizzare il novanta per cento delle uscite in campo true metal contemporanee. A scandire la prova maiuscola dei nostri, giunge in conclusione la splendida cover di “Digital Bitch” classico dei Sab-four periodo Osbourne. Beh, non lasciatevi abbattere dalla difficile reperibilità del suddetto dischetto, si perché se riuscite a sbattervi un pochino, riuscirete a farlo vostro, e allora si che sarà un vero massacro!!!!!!!!