Recensione: Construct

Di Matteo Di Leo - 27 Maggio 2013 - 0:01
Construct
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Anno: 2013
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55

 

L’approccio a “Construct”, nuova fatica dei Dark Tranquillity, è stato condizionato da due stati d’animo: la speranza e il timore. Speranza in un colpo di coda, dopo il tutt’altro che esaltante “We Are The Void” del 2010, che potesse riconsegnarci una band da venti anni in grado di scrivere splendide paginette della nostra musica attraverso album tanto straordinari da segnare profondamente i destini del death metal melodico e non solo. Ma c’era altresì timore, il dubbio che forse gli svedesi avessero già detto tutto nella propria carriera e oggi si limitassero a ripetere la formula trovata dopo la copernicana rivoluzione di “Projector”. Formula rivelatasi vincente ma che oggi appare trita e ritrita, vuoi perché l’effetto sorpresa è svanito, per l’abuso che se ne fa da oltre un decennio, o forse per un inaridimento della vena creativa destinato prima o poi ad affliggere ogni artista.

Alla luce di quanto ascoltato, devo purtroppo dire che le paure erano tutt’altro che infondate e il tarlo nato tre anni fa sta ormai raggiungendo proporzioni ragguardevoli visto che “Construct” non segna affatto la ripresa ma soltanto l’inesorabile approssimarsi del viale del tramonto. Il disco s’infila direttamente nel solco di quella strada per l’appunto battuta ormai da troppo tempo dai ragazzi, non aggiungendo nulla di nuovo se non fosse per un approccio compositivo decisamente semplicistico e riduttivo, presto tradotto in un depauperamento di quella mole di arrangiamenti, variazioni di tempo, parti soliste, scambi di tecnica e feeling tra i musicisti che avevano reso grande il sestetto (oggi rimasti in cinque, vista la defezione del bassista Daniel Antonsson).

Il risultato è un CD piatto, povero d’idee e contenuti, giostrato prevalentemente su tempi medio-bassi, spesso retto dal mestiere e da sprazzi del comunque innegabile talento di Stanne e soci ma lontano anni luce dai fasti del passato; un disco che non mancherà di dividere l’audience e che spiazza ai primi ascolti ma per fortuna quantomeno cresce alla distanza. Cresce, ma non diventa un gigante. Mikael Stanne, autore della consueta prova da leone, regge praticamente da solo o quasi le sorti del carrozzone, visto il ruolo minimale ritagliatosi dalle chitarre di Niklas Sundin e Martin Henriksson nonché dalle tastiere di Martin Brändström che sovente pare ‘nascondersi’ dietro alla coppia d’asce, un peccato mortale se consideriamo le capacità di questi musicisti; oltretutto le parti migliori sono proprio quelle in cui i tre escono dall’apatia per tracciare le melodie potenti e sognanti loro autentico marchio di fabbrica. Aggiungete a questo una prova anonima come non mai di quel fior di batterista rispondente al nome di Anders Jivarp è la frittata è fatta!

Il tutto inizia sotto i peggiori auspici con “For Broken Words”, già data in pasto alle fameliche fauci dei fan. Non si spiega la scelta di una tale apripista, lontanissima dalle storiche aperture del tempo che fu ma suo modo testimonianza di ciò che ascolteremo. Trattasi, infatti, di un atmosferico mezzo tempo mai in grado di decollare del tutto, che vuole essere oscuro risultando soltanto poco efficace per il ruolo che gli è stato assegnato. Non devo andare a ritroso fino a “Punish My Heaven” per veder scendere una lacrimuccia, basta fermarmi a “The New Build”. Le cose migliorano con la più sostenuta “The Science Of Noise”, nulla che faccia gridare al miracolo, trattasi difatti del tipico pezzo ‘seconda era’ dei Nostri, ma almeno assistiamo a un ritornello degno di nota e a parti ficcanti di chitarra e tastiera. Con “Uniformity” arriva la prima, piacevole sorpresa. Altro mid-tempo, subito ‘sporcato’ dal growl maligno di Mikael che però all’altezza del refrain sfodera la voce pulita. Non che sia questa la novità, il loro repertorio abbonda di canzoni di questa natura, ma stavolta la struttura semplice e di facile ascolto del pezzo è quella tipica di un brano pop e non a caso è stato scelto come primo singolo, con tanto di video. Poco male, il pezzo scorre piacevolmente grazie anche finalmente alle splendide melodie delle due asce, qualcosa che vi rimarrà in testa per giorni.

Il metronomo vede aumentare i battiti con “The Silence In Between”, buona traccia di death metal melodico e viatico per la regina di questo ballo: “Apathetic”. Signori, questi sono i Dark Tranquilltiy! Finalmente la velocità, l’aggressività vera e non posticcia, un riff che profuma di Svezia lontano chilometri e Stanne ancora magistrale, feroce nelle strofe e suadente come non mai nel ritornello, per un pezzo che si candida fin da ora a divenire un classico. Come colpiti da un salutare schiaffo, eccoli pronti a servirci un’altra gran bella canzone, “What Only You Know”. Di nuovo la staffetta clean/growl ma stavolta a parti invertite: strofe pulite – ritornello aggressivo. I ricordi vanno a “Misery’s Crown” (nonché alla splendida “In Sight” dalla retrospettiva “Exposure”), da rimarcare il lavoro di Brändström, capace di disegnare degli stupendi scenari; ancora lui protagonista di “Endtime Hearts”, in effetti unica nota di colore in un ordinarissimo brano post-“Projector”.

Da qui ci avviamo alla non certo memorabile conclusione. “State Of Trust” fa il paio con “Uniformity” ma non è capace di eguagliarne la qualità nonostante gli ammiccamenti al synth pop che non hanno mai fatto mistero di apprezzare, mentre “Weight Of The End” e “None Becoming” sono due semplici riempitivi, troppo manieristici e poco ispirati per poter essere ricordati. Sembra quasi che i Dark Tranquillity quando debbano scrivere un brano più cattivo vadano con il pilota automatico, affidandosi soltanto al mestiere per inoltrarsi in quel territorio che un tempo era il loro habitat naturale.

Capite bene che quando a malapena la metà delle canzoni sono valide e degne degli autori il giudizio complessivo non può che essere negativo e che un cinquantacinque per dei mostri sacri come i Dark Tranquillity è comunque una grossa bocciatura, ma questa è la dura realtà dei fatti. La peculiarità maggiore di “Construct” sembra quella di farci apprezzare maggiormente i dischi passati che non erano stati accolti con entusiasmo al momento delle loro uscite: il conforto che nessuno di noi voleva.

Matteo Di Leo
 

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