Recensione: Contraband
E’ da circa due anni che circolano notizie su questa nuova band, capace di catturare l’attenzione pubblica pur non avendo pubblicato nulla di concreto, facendo crescere intorno alla loro figura curiosità mista a speranza di vedersi materializzare davanti una nuova grande realtà nel panorama rock. Ma tutte queste speranze non erano campate lì a caso. Dopo tutto quando un chitarrista come Slash (Guns ‘n’ Roses, Slash’s Snakepit) riunisce le sue forze con Duff McKagan (Guns ‘n’ Roses, Neurotic Outsider, Loaded) e Matt Sorum (The Cult, Guns ‘n’ Roses, Neurotic Outsider), in altre parole tre quarti di quella che a ragione viene da molti considerata come l’ultima grande rock-band del pianeta, ecco lì che le speranze hanno ragione d’essere. Aggiunto all’essamble sopra descritto Dave Kushner (Wasted Youth, Dave Navarro’s band) come chitarrista ritmico, quello che mancava era un cantante in grado di reggere un palco con dietro dei mostri di tal genere. Dopo molte audizioni che hanno visto per un certo periodo Sebastian Bach (ex Skid Row) come possibile frontman di questo nuovo gruppo, a sorpresa il nome che ne sarebbe uscito fu quello di Scott Weilland, bizzosa e tormentata voce degli Stone Temple Pilots, dotato di una timbrica calda e versatile, conosciuto più per i suoi problemi di tossicodipendenza che misero più volte in seria crisi la carriera della sua band madre.
Di fronte a questa unione di talenti/personaggi le attese cominciarono a crescere in proporzione con le notizie che li vedevano alle prese con delle infuocate jam session in studio, dalle quali stavano nascendo molti dei brani che avrebbero composto il futuro album. Da queste sessioni cominciarono ad uscire alcuni “assaggi” (la cover dei Pink Floyd “Money“, o “Set Me Free” per la soundtrack del film “Hulk”) che insieme alle notizie e ai video messi online sulla rete di alcune loro esibizioni live, ben facevano sperare sul futuro di questa band. Futuro che è bene precisare non è stato proprio roseo a causa dei sopra citati problemi di Scott che hanno minato a più riprese i programmi di lavoro della band.
Ma chi la dura la vince, e dopo molti rinvii ecco che l’8 giugno 2004 i negozi di dischi vedono materializzarsi sui loro scaffali questo “Contraband“. Ma alla fine le promesse sono state mantenute? Come avvenne per gli Audioslave, la cui storia è molto simile a quella dei Velvet Revolver, le speranze non sono state ripagate a pieno. Forse sarà per le enormi speranze create, ma “Contraband” non colpisce a fondo come potrebbe.
Il gruppo sembra svolgere il suo compitino senza rischiare mai, andando a pescare a piene mani riff e linee vocali già usati in passato nelle rispettive band, il tutto amalgamato ad un ricorrente approccio punk (e qui si sente l’influenza di Duff!) che rendono i brani sì dinamici ma anche poco convinti. La voce di Scott è bellissima. Grazie alla sua duttilità riesce spesso a non far rimpiangere Sebastian Bach. Ma forse il ricordo di Axl Rose è sempre presente nelle mie orecchie, e là dove il buon Scott supera il frontman dei Guns in classe e calore, quest’ultimo vince in potenza e rabbia. Slash non graffia come sa fare. I suoi solos non sempre sono incisivi e decisivi come in passato, e i riff sono sì potenti ma non sempre efficaci.
In ogni modo non disperiamo. Ci sono degli episodi molto validi, come il singolo “Slither” con il riff di base che martella alla grande e Scott che incanta grazie ad una linea melodica ora aggressiva, ora dolce ed evocativa. Un brano realmente avvincente.
Anche il quartetto d’apertura esalta a dovere. ” Sucker Train Blues“, “Do It For The Kids“, “Big Machine” e “Illegal I Song” sono devastanti e fungono da premessa per un disco spacca ossa. Ma “Spectacle“, “Superhuman“, “Headspace“, “Dirty Little Thing” suonano anonime e senza mordente. Per fortuna “Set Me Free” riporta in alto le quotazioni del disco grazie ad groove trascinante e un refrain esaltante.
Di ottima fattura sono le ballad “Fall to Pieces” e “You Got no Right“, dove ritroviamo lo Slash ispirato che conoscevamo ed uno Scott Weilland in stato di grazia.
Come molti dischi, questo album vive di luci e ombre che minano la continuità qualitativa dei pezzi. La produzione è potente e lucida, il che dona al disco un suono moderno ed efficace. Ma la sensazione di una non piena realizzazione del potenziale di questa band è forte. Sarà sbagliato farsi trascinare dalle attese, ma quando nelle mie orecchie hanno suonato dischi come “Appetite for Destruction” e “Core”, non posso fare a meno di sperare. A questo punto forse dovrò arrendermi ai sospetti che volevano Izzy Stradlin come il vero mastermind dei Guns & Roses? O devo pensare che Dean DeLeo fosse il vero Stone Temple Pilots?
In conclusione buon disco ma non indispensabile.