Recensione: Core [reissue]
L’enologia insegna, esistono vini di pronta beva ed altri, dal carattere più complesso, che cedono i propri segreti con l’andare degli anni. Se si ha la fortuna di tenere in cantina qualche buona bottiglia, allora si avrà il pregio di invecchiare insieme al vino, e maturare le esperienze sensoriali, nella speranza di essere poi pronti in quell’occasione unica in cui al rintocco di un’ora eletta, ciascuno ritrova il suo buon vecchio amico “Dom”: chi di voi ha visto il celebre film “Fandango”, ha capito:
«A tutti noi per Dio!
A noi, a Dom e ai privilegi della gioventù!
A quello che siamo e a quello che eravamo…. E a quello che saremo.»
Chi avrebbe scommesso, nel 2007, sulla seconda prova da studio dei semisconosciuti andorrani Persefone? “Core”, coraggiosamente pubblicato da altrettanto poco nota label greca e da questa scarsamente promosso, era un disco prog death di poche massicce tracce dal minutaggio improbabile. Un’avventura per pochi che, come previsto dal copione dell’ovvietà, pochi intrapresero. Fra questi un solitario Riccardo Angelini recensiva il disco (https://www.truemetal.it/cont/articolo/core/56395/1.html) proprio su queste pagine, gettando un semen di mite e morigerata curiosità. Quel sassolino quieto, per cerchi concentrici e letture, propagava le sue onde, raccoglieva qualche conferma, mieteva i primi adepti e si incastonava, con fermezza che il futuro avrebbe consolidato, nei padiglioni auricolari di chi scrive, spingendolo ad una ricerca del disco in Spagna. Girai tutto il centro di Granada chiedendo, in qualsiasi negozio che solo mi suggerisse la presenza di un poco di metallo, di questo “Core” dei Persefone, lanciato nella mischia dalla Burning Star. Tornato a mani vuote, scrivevo ai ragazzi ed un gentilissimo Miguel Espinosa, tastierista e seconda occasionale voce del gruppo, si scusava e provvedeva a mandarmi il disco.
Bevemmo noi un calice di quel vino e ne fummo entusiasti: il missaggio non ancora eccelso come ad esempio nell’ultimo Spiritual Migration, non ancora valorizzava il ricercato equilibrio fra nitidezza ed una naturale amalgama dei sentori strumentali dei brani, fra la furia di una “Clash Of The Titans”, la dolcezza dell’indimenticabile a “Ray Of Hope” e tanti altri perduti passaggi figli di partiture complesse, che diremmo, se fossimo enologi, sentori secondari, atti a prolungare l’esperienza anche mentale del sapore, dopo il primo impatto ‘fisico’, di gusto pieno.
Ebbene ora, dopo più di cinque anni di distanza, per Vicisolum Records, i Persefone ripropongono il loro secondo ormai storico album, ricorosamente d.o.c. con una cover sostanzialmente fedele all’originale ma squisitamente rivisitata dal signor Travis Smith e soprattutto re-mixato, nell’ottica di una rivalutazione dei bassi ma senza perdere quella ‘nota acerba’ della pastosità dei suoni che andrà acquisendo una maggiore maturità negli album successivi: “Shin-ken” e l’ultimo “Spiritual Migration”, per inciso, altri due ottimi centri. Non è quindi un caso se il remix è stato affidato a Pere Revert che si è occupato del missaggio di questi due ultimi loro lavori
C’è un’altra notazione importante, probabilmente fondamentale: come del buon vino invecchiato, Core ritorna forte di una nuova ‘struttura’. Paragonarlo ad un vino d’annata ben strutturato ha senso se, come è, l’album viene presentato con una tracklist tradizionale, che sostituisce le tre macrotracce della prima stampa. Da ognuna di queste tracce di proporzioni veterotestamentarie, sono state snocciolate via canzoni di medio-lunga e più lunga durata; i titoli delle tre grandi tracce restano a dividere ora altrettanti ‘capitoli’ sotto i quali si dipanano tre gruppi di canzoni: non si perde anima e nel complesso il tutto acquista personalità e raggiunge una fruibilità maggiore e di rinnovato piacere sotto il profilo narrativo, trattandosi di un concept sul mito di Kore, figlie di Demetra, rapita da Ade, follemente innamorato di lei: ora infatti ad ogni paragrafo corrisponde una canzone ed i momenti narrativi possono essere isolati e rivissuti con immediatezza e più capillare attenzione.
Nulla di analitico, quest’idea di strutturare l’album lungo più tracce era in testa a Miguel Espinosa da diversi anni e già me ne parlava ai tempi del tour con gli Obituary, con fortunata tappa italiana a Roma. Il modo di strutturare “Core” si rafforza già con “Shin-ken” e trova conferma con l’ultimo loro lavoro: forte è nei Persefone la spinta prettamente narrativa di dire storie o muoversi organicamente intorno a tematiche facilmente distinguibili, talmente forte da donare, in ognuna delle loro uscite, un tema musicale di raccordo, un reprise cinematico-emozionale che struttura emotivamente la serie dei brani così che nel momento in cui ciascuno di loro viene a darsi indipendentemente, l’insieme non si disgrega e resta l’impressione vivida di opere in se stesse omogeneamente compiute.
«Val la pena stappare questa bottiglia?», ci si chiederà il perchè di questa ristampa. Tre validi motivi fin troppo semplici da enucleare: primo, il disco era difficilmente reperibile; secondo, remixato, offre un’esperienza più pulita dell’ascolto; terzo, presenta “Core” attraverso una strutturazione dei brani più accessibile e in grado di migliorare, così è per me, l’esperienza di ascolto.
Non storcano dunque il naso gli ascoltatori della prima ora, parlo a coloro che come me hanno amato questo disco senza soffrire davvero innanzi al blocco di canzoni da venti minuti; per noi, per chi vorrà, ecco un’occasione di tornare, preda ad una filologia rigorosamente del cuore, a melodie già apprezzate, già parte della nostra piccola storia. Filologia del cuore, perchè di prog dell’anima stiamo parlando, nessun onanistico virtuosismo, tecnica ce n’è tanta quanta è l’anima.
Per chi non conosce il disco, si presenta la possibilità di stappare una bottiglia d’annata ed assaporare dell’ottimo prog death intriso di passione, furia, melodia ed una nota piacevolmente acerba, sulla quale insisto, di primordiale ridondanza. Ridondanza che il tempo ha premiato mutandola in ricchezza. Se ai dischi successivi a questo fa da testimone il dono di una più lucida sintesi, mai, intendiamoci, capace di influire negativamente sulla generosità compositiva, creativa dei ragazzi andorrani; a Core corrisponde la vulcanicità del mito, la prorompenza di immagini e partiture degno dei famigerati e densi inni Pindarici.
Core resta un progetto musicale coraggioso che fedele al concetto così come alla sua anima antica, non cede di un millimetro agli stilemi del prodotto commerciale definibile, circoscrivibile e ruffiano. Quei tre brani lunghi, quasi ingenuamente generosi, sfaccettati e soprattutto suonati con concreta passione non sono più triplice e sfingico ostacolo per intraprendenti ascolti ma melodia e tecnica rimangono fedeli ad un un quadro di perfetta allegoria musicale.
Ricordo ancora la battuta di Espinosa al termine del concerto romano del 2009: «we’re an underground band…». Siamo un gruppo da scena underground, io avevo riso ma lui non scherzava: tanta umiltà non li abbandona; e non li esaltava che positivamente l’ottima resa live sul palco romano del Blackout. Di underground oggi, questo affiatato gruppo di musicanti andorrani, conserva l’entusiasmo iniziale, fresco e ben comunicato anche in tempi recenti dalle loro nuove composizioni.
Il discorso potrebbe terminare in questo modo, lasciandovi il piacere della scoperta, o della riscoperta, se qualcuno della vecchia guardia vorrà tornare a Core senza rispolverare la vecchia edizione del 2007. Immagino anche la felicità di chi abbandonerà la vetusta copia digitale del disco in favore di una reperibilissima ristampa: la curiosità della riscoperta banchetta col ‘possesso’ della copia reale di un disco degno di collezione: e potremmo avanzare l’idea che ascoltare da disco sta al bere dal calice, così come l’ascolto da mp3 sta al cartone di vino da cucina, mi perdoneranno i ‘vecchi’ ed i ‘nuovi vecchi’ amanti delle copie fisiche degli album.
Il discorso dicevo, potrebbe terminare ma non finirà qui perchè non ho dato risposta ad una domanda naturale: se tu dovessi presentarmi questo disco, come lo faresti?
Sceglierei a caldo due brani, li ho scelti da anni in fondo e li ho già citati: due brani medio-lunghi, diretti, ad affrescare due anime principali fra le molte di “Core”; sono “Clash Of The Titans” e “A Ray Of Hope”.
Tutto in loro presagisce alla dualità che lacera il mito come anche la tragedia antica. Il primo brano è ferale, impetuoso, cupo: alla voce di Marc Mas, potentissima anche live, fa eco un riuscitissimo solo di chitarra che segna il brano ed il disco; un solo che piacerebbe al miglior De Feis, con buona pace del gran Pursino, qui si tratta della chitarra di Carlos Lozano. “Clash Of The Titans”, dicevamo, latore d’ira tale da non lasciar nemmeno immaginare la dolcezza dell’altro pezzo, il cui tema di fondo, per quel gioco di rifrazioni musicali tanto caro alla band e così ben dipanato in Core, torna anche nel pezzo successivo. Ray of Hope è una vera e propria ballata, un raggio a squarciare le basse, umide, cavità nimbiche dell’Ade, una traccia di luce a segnare il cammino. Il filo di Arianna? No, non in quel Labirinto, non lì, ma qui e ora, nell’Ade e poi fuori ancora.
Marco Migliorelli
Discutine sul Forum nel topic relativo!