Recensione: COrollarian RObotic SYStem
A un anno di distanza dal recente EP World At War, i francesi Dusk Of Delusion tornano suggellando il fresco accordo con l’etichetta Metal East e dando alla luce il terzo sforzo discografico: COrollarian RObotic SYStem. Per l’occasione si viaggia in un futuro distopico, dove la compagnia COROSYS mette l’umanità in pericolo a causa di robot antropomorfi chiamati Corollarians. Si tratta chiaramente di un concept album che quindi elabora una storia di certo non originale, ma che spezza la claustrofobica atmosfera portata avanti con i conflitti della storia di un mondo destinato a ripetere i propri drammatici errori. Con “CoRoSys” il quintetto capitanato da Benoit Guillot (voce) e Matthieu Morand (chitarra e tastiere) punta nuovamente su un metal moderno, dalle ritmiche sostenute che non perdono però la capacità di immettere interessanti spunti e contaminazioni (The Snap e Tinplate Soldiers su tutte) che ancora non avevamo visto sui lavori precedenti.
£i0Nh€4rt_B4$t4rd è forse il manifesto ideale per delineare la maturazione compositiva dei nostri, affiancando e marcando sia l’indole melodica, che quella più estrema, finalmente con un comparto strumentale degnamente sorretto da tappeti tastieristici che accentuano la caratterizzazione della proposta di CoRoSys, ben presto abile nel dimostrare che possa godere di vita propria e offrire qualcosa di differente rispetto ai suoi predecessori, pur se discostandosi da quanto ascoltato con il convincente World At War dello scorso anno.
Tre quarti d’ora letteralmente volati e questo grazie soprattutto alla varietà che permea il disco dall’inizio alla fine. Non ci sono particolari episodi capaci di lasciare a bocca aperta – quel salto che tanto avevo preannunciato non è ancora avvenuto – ma la compattezza del sound si incastra alla grande all’interno di un concept sfaccettato e nient’affatto scontato come si potrebbe erroneamente pensare dando un fugace sguardo alla storia di fondo. Il viaggio nel futuro ha concesso ai Dusk Of Delusion un buon disco di metal moderno che però non deve assolutamente rischiare di guidare la band in un labirinto senza via d’uscita. La necessità di prendere in mano una forgia rovente e imprimere su disco qualcosa che rimandi con più vigore è imperativa, del resto basterebbe davvero poco, magari calcando maggiormente quei tratti più convincenti (vedi il finale di Legal Slaves, oppure The Hatred Confession) e perdere quel retrogusto quasi hardcore di linee vocali che non sempre rispecchiano l’ispirazione complessiva della band. Che poi è magari soltanto un mero punto di vista, come sempre, o forse no.