Recensione: Corpse Fortress
Sotto una pioggia bollente di riff, pesanti quanto un martello da guerra, una coltre di corpi straziati affonda lentamente nel denso fango degli Ilsa. Catapultati in un campo di battaglia, ci si ritrova improvvisamente a trascinare il proprio cadavere verso quella dannata fortezza dall’odore nauseante. É l’inizio di una lunga marcia, oberata dal peso di una spessa armatura dentro alla quale si ha la sensazione di non essere soli. Deponete le armi, qui c’è solo morte.
Sono passati tre anni dal precedente “The Felon’s Claw”, ed il nuovo “Corpse Fortress” sembra essere la miglior espressione sonora della band statunitense che, macigno dopo macigno, ha messo su un baluardo dalle dimensioni monumentali. Ad accorgersene è stata la Relapse Records che ha puntato i propri fari sull’oscuro mondo dei Nostri, illuminando, per quanto possibile, l’atrocità nascosta al suo interno. Il doom degli Ilsa possiede una consistenza rilevante: un fiume melmoso che straripa, che annega le anime per trasformarle in schiavi. Dal primo ascolto, infatti, si è già succubi di un sound decisamente solido e coinvolgente che si regge sulle granitiche fondamenta di chitarre cupe e furenti alle quali si aggrovigliano i lamenti grevi del basso. ‘Hikikomori’ è il degno inizio di un disco dal volto sinistro, che odora di marcio e che si muove sinuoso lungo le guglie insanguinate della fortezza abitata da soli cadaveri. Il suono distorto e rarefatto guida una lacrima, ammaliata da tanto patimento, verso l’oblio disegnato dalle vibranti corde delle chitarre che stridono controvento come accade nel finale di ‘Nasty, Brutish’. Le ritmiche scandiscono il passo pesante di una marcia che lascia un solco profondo lungo questa salita asfissiante verso un traguardo senza speranze. A metà strada ci si imbatte in ‘Old Maid’: brano spartiacque in cui esplode una frenesia infettiva che aumenta le pulsazioni sonore mutando l’avanzata disperata in una corsa insana, scandita da urla di tormento. Urla che tornano a ringhiare in ‘Long Lost Friend’: un’orrendo graduale martirio incalzato da una voce alienante che elenca ogni forma di crudeltà mai estirpata da questo luogo maligno. “Corpse Fortress” è un’affascinante macchina del dolore ideata per torturare la mente, congelando i sensi con il proprio rumore che esplode fragorosamente nella trascinante ‘Ruckenfigur’.
Nel fango degli Ilsa si amalgamano i suoni ancestrali dei maestri Black Sabbath con quelli più moderni che puzzano di Hooded Menace e di Coffins, per citarne alcuni, così da creare un miscuglio dalle esalazioni caustiche. Un sound in continua ebollizione che viene magistralmente alimentato da scintille dinamiche di death e torride vampate crust punk.
‘Drums of the Dark Gods’ scandisce l’arrivo dinanzi al portone spalancato della fortezza. All’interno si dipinge lentamente l’immagine di una carneficina terrificante, orfana di una legittima giustificazione. La presenza misteriosa, nascosta nell’armatura, spolvera le rimembranze di tutte le guerre rivelando la propria identità e colpevolezza. Un’infinità di vite vanificate dall’odio.
Benvenuti a “Corpse Fortress”.