Recensione: Corridors of Power

Di Abbadon - 20 Febbraio 2005 - 0:00
Corridors of Power
Band: Gary Moore
Etichetta:
Genere:
Anno: 1982
Nazione:
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85

Dopo essersi lanciato definitivamente nel mondo dell’Hard’n’Heavy, e da solista e soprattutto con vari progetti paralleli a quella che era ormai la Gary Moore Band (ad esempio i G-Force e le apparizioni con Phil Lynott e i suoi Thin Lizzy), l’axeman protagonista di questa recensione decide di pubblicare il primo lavoro della appena citata Gary Moore band degli anni 80 (l’ultimo lavoro, “Back on the Streets”, risaliva ormai al 1978). Questa decisione viene  nel 1982 quando, assieme a vari tour intrapresi fra l’anno corrente e il precedente (nell’81 coi “progetti”, nell’82 con la fra poco descritta line-up), esce sul mercato “Corridors of Power”, primo mattone della decade più fortunata (artisticamente parlando) del signor Robert William Gary Moore. L’album esce in due versioni (entrambe dell’82), una inglese (sotto etichetta Virgin) e una USA (sotto Mirage) che differiscono fra loro per cover e per una track (la “Falling In love with you” della versione USA è infatti remixata). Esse vengono accompagnate da un singolo ciascuna, infatti la Virgin propone il singolo “Falling in Love With You”, mentre la Mirage si “vendica” con “End of the World”. Tutte queste uscite sono baciate dalla fortuna, sia il platter, che viaggia discretamente nelle classifiche (al numero 149 di billboard e 30 in Inghilterra) e che comunque risulterà fra i dischi più venduti di Moore, sia i singoli (Falling è nella al 31 della speciale classifica).
C’è da dire che questa fortuna è ampiamente meritata, in quanto bastano i primi minuti del prodotto per garantirne la qualità. Trattasi infatti di un disco molto costante, dove è ben difficile trovare un punto debole, veramente una chicca per gli amanti dell’hard rock non dico più sfrenato ma di più buon gusto, fattore in cui Gary, oltre alle sue terrificanti doti tecniche, è sempre stato maestro. Per la riuscita del suo prodotto non esita a chiamare a sé i migliori musicisti reperibili, e così ne esce la seguente line-up, che viene peraltro coordinata molto bene dal produttore Jeff Glixman : Gary Moore (voce e chitarra), Neil Murray (basso di Whitesnake e altri in passato, Black Sabbath in futuro, tanto per renderci conto di chi sia), Ian Paice (devo proprio dirvi dove picchiava le pelli?. Vi basi sapere che nell’82 escono due masterpieces come “Saints and Sinners” e appunto Corridors, dove alla batteria c’è sempre il nostro occhialuto amico) e Tommy Eire (già tastierista di Babylon, Riff Raff e altri ancora). C’è anche un piccolissimo retroscena sul cantante. In origine la voce di Corridors avrebbe dovuto essere Gary Bardens, appena lasciato a piedi dai MSG (per Graham Bonnet). Il nostro aveva già i demo del materiale ed era carico per eseguire, quando l’altro Gary (Moore) decide di cantare lui, lasciando a terra il “povero” vocalist (due volte in manco un anno), che peraltro tornerà all’ovile nell’83.
Beh, basta notizie, è ora di parlare di musica. Come vi potete aspettare da Gary, è la chitarra a dominare il gioco, senza però (come avviene in troppi guitar heroes di oggi, senza fare nomi) voler opprimere il risultato finale e il contributo degli altri. Il risultato è semplicemente splendido, 9 tracce (per 56 minuti) di Hard Rock qua pirotecnico e là estremamente blueseggiante, una miscela potenzialmente esplosiva e che si propone di conquistare. E così è. Il tutto è aperto da una intro in pompa magna, quella di “Don’t Take for a Loser”, grandioso lavoro di lead guitar foriera di un bellissimo quanto azzeccato riff. Questa è la combinazione vincente, se poi ci mettete il testo (ricercato in dolcezza e fermezza, come gli altri presenti del resto), il pre-refrain, i coretti, lo stesso ritornello e i tocchi di classe qui e là, beh le parole finiscono per lasciar spazio alle orecchie. Ho parlato di dolcezza, e dolcezza troviamo, in tutta la sua malinconica magia , in “Always Gonna Love You”, ballata che è entrata ben presto a far parte delle mie preferite. Su tutti metto il pianoforte, che “crea” la song, e i duetti che esso ha con gli altri strumenti a seconda delle strofe. Dire che ho la pelle d’oca a sentirlo intrecciarsi con l’arpeggio di 6 corde è poco, così come noto la sacralità della sovrapposizione alla tastiera. Bellissimo anche il solo per uno dei migliori pezzi del disco. C’è spazio anche per una cover, che si materializza nel brano dei Free “Wishing Well”. Anche qui tutto è molto bello, dalla scelta, alla reinterpretazione splendida del quartetto, quindi onore ai Free creatori e ai nostri coveristi, che da Wishing passano a “Gonna Break my heart Again”. Estermamente “piena”, la canzone ricorda abbastanza la prima, anche se è decisamente più lenta. Di Gonna mi piace soprattutto il cantato, eseguito a regola (e io considero Gary un ottimo vocalist) e che impreziosisce la song al pari del gran refrain, di impatto quanto non esagerato. Dopo 4 super pezzi arriva uno dei componimenti più famosi, anche se per me non dei migliori del disco. Parlo di “Falling in Love with you”, uno dei due singoli, vera e propria power ballad che non mancherà di stupire per ispirazione e esecuzione, ma che secondo me è un po’ troppo enfatizzata e volendo anche ruffianotta. Per carità sempre di alti livelli parliamo, ma appunto la vedo più come singolo da radio, e senza dubbio meno meritevole del quartetto precedente (attensione : non perché lo reputo radiofonico, prima di alzare vespai). Anzi, forse è la peggior song del disco. Sesta song, e secondo singolo, “End of the World”, questo sì veramente brano speciale e stralunato. La hit nella hit è senza dubbio l’assolo iniziale, oltre due minuti che dovrebbero mandare in visibilio ogni amante della 6 corde (pare di sentire a tratti la colonna sonora di un film e a tratti Van Halen). Anche il resto però non scherza, causa una ritmica della quale gli dei del Rock dovrebbero essere solo fieri. In definitiva il miglior lavoro di tutto l’album (con Always gonna love you) per chi scrive, anche grazie alla cortesia di un guest di lusso, Jack Bruce dei Cream, che qui canta, eccome se canta. Sugli stessi livelli anche “Rockin’ Every Night” canzone tiratissima e piuttosto Deep-Purpleiana. Questo effetto viene probabilmente, anzi sicuramente, dalla presenza in sede di composizione di Paice, unico a scrivere qualcosa (a vedere i credits) oltre a Moore. Il che però non guasta, regalando minuti di pura elettricità, soprattutto grazie a uno spettacoloso riff. E a proposito di Riffs, che dire di quello che comanda “Cold Hearted”. Beh anche qui siamo sulle 5 stelle, il mid tempo è carico e deciso, e soprattutto sa diventare bello vario e pieno quando si sta per dire che è scarno, tempismo che fa guadagnare ulteriori punti al combo(stavolta non mi piace il cantato, ma probabilmente Gary interpreta la song). La chiusura è affidata alla evocativa e splendida “I Can’t Wait until tomorrow”, lento molto tipico, con le keyboards in primissimo piano (e strumenti che pian piano entrano nel contesto, non senza regalare emozioni).
I Can’t è senza dubbio una chiusura più che degna di un disco davvero splendido, senza dubbio uno dei migliori del signor Robert Williams Gary Moore, chitarrista meno conosciuto di quanto dovrebbe essere tanto quanto bravo a “bagnare il naso” a gente ben più famosa, facendo di tecnica, feeling e buon gusto le sue armi migliori.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Don’t Take me for a Loser
2) Always Gonna Love You
3) Wishing Well
4) Gonna break my heart again
5) Falling in love with you
6) The End of The World
7) Rockin’ Every Night
8) Cold Hearted
9) I Can’t Wait Until Tomorrow

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