Recensione: Corrosion of Conformity

Di Damiano Fiamin - 15 Febbraio 2012 - 0:00
Corrosion of Conformity
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
78

Era il 1983 quando Mike Dean, Woody Weatherman e Reed Mullin si unirono e decisero di dar vita ai Corrosion of Conformity, band che sarebbe diventata una tra le più importanti per quanto riguarda la scena metal. Oltre a essere tra i numi tutelari dello sludge, sono estremamente influenti nel panorama hardcore e thrash metal, in grado di proporre un’offerta musicale con pochissime sbavature e di conquistare, con solo sette dischi all’attivo, pubblico e critica. Dopo tre decenni, gli statunitensi tornano a registrare un disco con la formazione originaria, caratterizzata dalla triade elementare chitarra, basso e batteria. Nonostante i numerosi cambiamenti avvenuti nel tempo, i membri fondatori sono sempre rimasti in contatto; certo, gli anni passano e sappiamo tutti come, fin troppo spesso, manovre del genere nascondano solamente biechi obiettivi commerciali. Sarà questo il caso? La band avrà conservato parte del suo smalto o ci troviamo davanti all’ennesima e trascurabile operazione nostalgia?

Dopo l’incipit rallentato, Psychic Vampire sublima e si condensa in un brano viscoso e visceralmente potente, che ha come unica valvola di sfogo il ritornello, una martellante cavalcata che ci riporta nei gloriosi territori dell’heavy metal dei primi anni ottanta, con la chitarra che si distorce e il basso che pompa vigoroso. Rapido e sporco, fuoriesce dalle nostre casse River of Stone, un pezzo maleducato e impetuoso che gioca sulla contrapposizione tra assalti brutali e sincopate interruzioni e si consuma velocemente come un fuoco scoppiettante alimentato con troppa decisione. Più canonica l’esecuzione di Leeches, in cui riff massicci e graffianti si susseguono in crescendo, coperti da una patina lurida che li appanna senza sminuirli; quasi un esercizio di stile, ma discretamente coinvolgente. Tempo di strumentali: El Lamento de Las Cabras parte da lontano, una chitarra malinconica e pensosa che, senza fretta, spreme ogni singola nota fino alla sua ultima vibrazione. Il suono è ripulito di quasi tutte le sue asperità, ma riesce comunque a trasmettere una sensazione di disagio che permane fino alla rutilante apertura di Your Tomorrow. Potente e cattiva, si abbandona un po’ troppo rapidamente a una meccanica ripetizione delle stesse due, tre frasi che, per quanto accattivanti, non riescono da sole a reggere un’intera canzone. A dispetto del titolo, The Doom alterna episodi lanciatissimi ad altri più compassati, realizzando un cocktail esplosivo che stordisce e confonde l’ascoltatore che, fortunatamente, viene sedato dalla sabbathiana conclusione, in grado di portare alla mente i tempi d’oro di Ozzy e soci.
La prima parte di The Moneychangers si muove al confine tra punk e thrash metal, una vera e propria serie di detonazioni prive di melodia, ruvide come carta vetrata, in cui la batteria picchia senza sosta, come se Mullin tentasse di distruggere le bacchette ispirato da chissà quale furia divina. Stacco netto nella seconda metà del brano: i suoni si ovattano e rallentano, in una disperata caduta verso il cupo abisso di Come Not Here. Il pezzo si allaccia al precedente, quasi senza soluzione di continuità, strutturandosi come un malevolo lamento in cui grida e distorsioni tentano di emergere da un pozzo di bassi profondi e riff disturbanti. What We Become si inserisce nella tradizione di brani energici e sporchi, in cui gli strumenti si prodigano in un processo di rifinitura invertita, in cui l’obiettivo è ottenere il risultato più grezzo possibile mentre una voce maleducata urla nel microfono. Rat City è un brano allegro e sguaiato, dominato da una costruzione ritmica meno opprimente dei suoi fratelli, una festosa dichiarazione d’amore per l’heavy metal che non impressiona per la sua originalità, ma riesce a mettere di buon umore l’ascoltatore. In chiusura, Time of Trials, probabilmente la traccia meno riuscita dell’intero lotto. L’intelaiatura del brano è poco intrigante e i riff non riescono a far breccia nel cuore dell’ascoltatore creando, piuttosto, un amalgama confuso che trova senso unicamente nei solo di Weatherman.

Un ritorno in grande stile per il terzetto fondatore dei Corrosion of Conformity. Certamente, nel tempo, i fan avranno avuto modo di apprezzare più una formazione rispetto che un’altra, di affezionarsi a una voce in particolare e di arrivare a prediligere uno strumentista ben preciso. I cambi in line-up sono, nel bene e nel male, eventi fisiologici nella storia di una band; in questo caso, però, siamo davanti ad un ritorno alle origini, con tre artisti decisamente in forma che si sono ritrovati per realizzare un disco che basta ascoltare una volta perché fughi ogni dubbio su una sua eventuale genesi nel reparto marketing, regalandoci undici tracce potenti e vigorose, in grado di esaltare senza mai scadere nei cliché del genere. Più che semplice insegnamento alle nuove generazioni, ci troviamo davanti ad un modello cui ispirarci per superare il traguardo dei tre decenni senza accusare troppo il peso degli anni. I progetti futuri della band annoverano un ritorno nella dimensione a quattro elementi; staremo a vedere, godendoci, nel frattempo questa parentesi primigenia.

Damiano “kewlar” Fiamin

Discutine sul topic relativo

Tracce:
1. Psychic Vampire
2. River of Stone
3. Leeches
4. El Lamento de Las Cabras
5. Your Tomorrow
6. The Doom
7. The Moneychangers
8. Come Not Here
9. What We Become
10. Rat City
11. Time of Trials

Formazione:
Woodroe Weatherman – Chitarra
Mike Dean – Basso, voce
Reed Mullin – Batteria, voce

Ultimi album di Corrosion of Conformity