Recensione: Cosmic Healer
I Velvet Viper di Jutta Weinhold sono ripartiti a pieno regime nel 2018 con “Respice Finem“, un album – per quanto mi riguarda – dignitoso ma fondamentalmente senza infamia e senza lode. 26 gli anni di distanza da “The 4th Quest For Fantasy“, secondo platter della band che a sua volta seguiva il debut omonimo del 1991. Due lavori eccellenti che ancora oggi, se usati come pietra di paragone, fano sentire tutto il loro peso sulla musica composta dai Velvet Viper del nuovo millennio. Nel 2019 esce “The Pale Man Is Holding A Broken Heart” ed oggi è la volta di “Cosmic Healer“. in formazione è entrato il bassista Fabian Ranft (che va a prendere in pianta stabile il posto del turnista Johannes Horas) . Fa abbastanza impressione notare come della line-up del 2002 l’unica sopravvissuta (letteralmente) sia la sola Jutta, che il prossimo ottobre spegnerà 74 candeline sulla sua torta di compleanno. Nonostante tutto i Velvet Viper sono la sua creatura, esattamente come prima gli Zed Yago venivano tout court identificati con lei (e non a caso Jutta si è ripresa gli album di quella band cantati da lei “importandoli” sotto il monicker Velvet Viper e ripubblicandoli nel 2020.
Anche il songwriting di “Cosmic Healer” (il cui mastering è a cura di Alexander Krull degli Atrocity) è costruito a sua immagine e somiglianza, rispecchiando lo stile Weinhold, collaudato sin dal 1988, l’esordio degli Zed Yago con il bellissimo “From Over Yonder“. Non che prima Jutta non avesse avuto altre esperienze discografiche, tuttavia la sua carriera “metal” ha avuto l’imprimatur ufficiale a partire da quell’anno e quel disco. Oggi i Viper viaggiano su binari consolidati e quadratissimi, tipicamente teutonici, fatti di un metal in 4/4, con la stentorea e declamatoria ugola di Jutta a far da traino. La prima cosa che si nota lasciando partire le note della opener “Sword Sister” è la totale, programmatica, consapevole assenza di novità, di estrosità, di colpi di testa. “Cosmic Healer” è un platter di puro e incontaminato heavy metal prodotto negli anni 2000, ma concepito da uno spirito che risiede stabilmente in una dimensione temporale situata a diversi decenni di distanza dal nostro.
Per una curiosa disposizione della track-list, la parte mediana dell’album è quella che vede il concentramento dei migliori pezzi del lotto, perlomeno a mio gusto. Il drappello che va da “Holy Mother Snake” a “Osiris” rappresenta il climax dell’album, quasi il 50% del minutaggio, considerando che stiamo parlando di 4 canzoni sulle 10 totali (l’undicesima è una versione acustica di “Götterdämmerung“, originariamente contenuta in “The Pale Man Is Holding A Broken Heart“). La classicità tetragona di “Cosmic Healer” rappresenta al contempo la sua forza ed il suo limite. Se non andate in cerca di novità, eterodossia o particolari stravolgimenti (neppure dello stesso sound dei Velvet Viper) qui certamente troverete metal ben eseguito (non tecnico ma neppure rozzo) che nella maggior parte dei casi fa dei chorus il proprio punto di forza, nonché il punto di approdo di tutto il songwriting. Nulla di pacchiano, epici senza parossisimi, adagiati sui tipici cliché del genere e con un drumming che forse poteva regalare un po’ di fantasia in più.
D’altro canto, se anche dal più canonico heavy metal continuate ad aspettarvi qualche scintilla, qualche variazione di spartito che renda ancora digeribile una ricetta oramai oggettivamente ripetuta alla enne, “Cosmic Healer” potrebbe lasciarvi solo moderatamente soddisfatti, perché al di là dell’affidabilità tedesca del brand Weinhold, non avrete per le mani molte altre argomentazioni da spendere in merito a questo album. Un prodotto massiccio, granitico e compatto che non vuole stupire ma solo trasmettervi un senso di familiarità ininterrotta. Siamo al minimo comune denominatore dell’heavy metal, c’è tutto il necessario, non una virgola in più. Un disco che si ascolta volentieri e senza sussulti, ma che difficilmente – una volta riposto – verrà preferito al recupero di “Velvet Viper” o di “The 4th Quest For Fantasy“, sui quali è invece possibile tornare all’infinito). Lunga vita alla volitiva Jutta, non sono tantissime le donne nel metal che possono vantare una carriera così lunga e generosa.
Marco Tripodi