Recensione: Cosmogony
Dopo quasi tre anni dal loro ultimo lavoro “Hollow Man”, i quattro heavy metallers dell’underground genovese sono tornati con la loro ultima fatica “Cosmogony”, uscita per Diamonds Production giusto quest’anno.
Ciò che li contraddistingue maggiormente rispetto al precedente disco è sicuramente l’uso di suoni di stampo prog, death, fino ad arrivare al thrash e questo lo si evince maggiormente ascoltando la sezione ritmica, sempre molto presente, del basso di Alessandro Asborno e della batteria di Michele Pintus che si contrappongono alle parti di chitarra Andrew Spane.
Questa scelta di discostarsi parzialmente dal filone heavy è dovuta al fatto che la band ha voluto dare maggior ascolto a ciò che il pubblico desiderava sentire nei loro brani, accontentandoli in toto, pur mantenendo un proprio stile compositivo.
Anche la voce del singer Fabio Carmotti è cresciuta nel tempo. Rispetto al precedente disco, qui è molto più matura, ben misurata e controllata senza mai cadere nell’esagerazione.
Come spiegato poc’anzi “Cosmogony” si allontana parzialmente dall’heavy di stampo classico, avvicinandosi di più a quel sottogenere che oggi viene definito come modern metal, in cui i brani risultano essere saturi di note, ma stranamente, in questo lavoro, nulla risulta essere stucchevole all’ascolto, perché gli interventi di tutti i musicisti sono ben calibrati e si amalgamano in modo complementare alla parte cantata.
Vista la varietà di generi dai quali attingono i No Man Eyes, questo disco accontenta un po’ tutti gli ascoltatori.
Fin dall’intro di ‘Lord’ possiamo apprezzare le qualità canore di Fabio, qui più vicine ad influenze hard rock anziché heavy. Queste fanno da apripista all’opener ‘Dreamsland’, aggressiva in tutta la sua interezza, riff potenti e batteria serrata che sfocia nel thrash man mano che si prosegue con l’ascolto del brano. La successiva ‘Huracan’ coinvolgere fin dalle prime note l’ascoltatore, grazie al chorus molto catchy ed ai continui cambi di registro che riprendono, sul finire del brano, l’intro della sei corde di Spane.
‘Bound to Doom’ si discosta un po’ dalle undici tracce del platter. Qui viene preferito una sorta di prog alla Symphony X, spezzata però dal suono martellante e sempre presente della batteria di Michele che va ad esaltare il tappeto di note eseguito dalla chitarra nella parte centrale, parte che verrà poi ripresa sul finire del brano.
Proseguiamo con ‘Spiders’, traccia che presenta una forte contrapposizione tra melodia e sezione ritmica, che esplode violentemente nel proseguo del brano, grazie sempre all’ottima tecnica e padronanza dello strumento dimostrata da Spane. ‘Blossom of Creation’ probabilmente risulta essere quella meno convincente dell’intero disco, forse c’è stato un uso troppo massiccio della batteria, ma qui entrano in gioco i gusti personali.
‘All the Fears’ , secondo chi vi scrive, rappresenta la massima espressione dei No Man Eyes, per quanto concerne questo disco, sia come espressività, songwriting, che esecuzione musicale. Con ‘How Come’ riprendiamo i primi brani, molto omogenei sia nella parte strumentale che nella parte cantata, sebbene il tiro, a differenza delle precedenti canzoni, risulti essere più moderato e melodico.
In ‘The Death You Need’, il gruppo ci dimostra che, sebbene siamo quasi giunti alla conclusione, loro non vogliono mollare e ci dimostrano che di energia ne hanno ancora parecchia. La successiva title-track ‘Cosmogony’ è un brano interamente strumentale, che mette in luce tutte le potenzialità, senza tralasciare la tecnica, di Andrew Spane che qui, nuovamente, si rifà allo stile malmsteeniano, dispensando lunghe scale, sulle quali può esplodere il solo in tutta la sua maestosità.
Mettiamo da parte queste bellissime arie barocche perché con ‘Children of War’ siamo ormai giunti alla conclusione di questo secondo album dei genovesi No Man Eyes, che mettono ancora una volta il piede sull’acceleratore dimostrandoci nuovamente che l’underground italiano è vivo e pulsante e che loro non molleranno mai…e voi?
Menzione a parte va alla cura dei testi, che trattano tematiche molto diverse tra loro, dalla fantascienza fino alla spiritualità interiore. Questi vengono riassunti in una piccola postilla in fondo al libretto, per meglio guidare il fruitore nell’ascolto e fargli comprendere appieno ciò che la band vuole esprimere..
Nella sua interezza “Cosmogony” risulta essere un buon disco, con molti spunti interessanti, ma che ancora manca di quella spinta in più necessaria per far risaltare la band rispetto a tante altre. Ciò non toglie che il gruppo è notevolmente migliorato dal precedente “Hollow Man”, quindi ragazzi, avanti così!
Nadia “Spugna” Giordano